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Il calcio femminile è una missione, intervista a Milena Bertolini

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Il calcio femminile è una missione, intervista a Milena Bertolini

Abbiamo parlato con la CT della Nazionale di quanto sarebbe importante per il calcio femminile italiano qualificarsi ai prossimi Mondiali.

 

 
 

Nell’agosto del 2017 Milena Bertolini è stata scelta dalla FIGC per guidare la Nazionale femminile verso i Mondiali di Francia 2019, un obiettivo che sembrava quasi impossibile da raggiungere inizialmente alla luce del fatto che la selezione italiana non partecipa alla fase finale di questa competizione addirittura da USA ’99.

 

«Negli anni ’90 l’Italia femminile è stata una delle nazionali più forti in Europa, poi però il movimento ha rallentato fino a fermarsi per 15 anni, più o meno dal 1999 al 2014», mi dice lei quando cominciamo l’intervista. Mentre l’Italia si fermava, il resto d’Europa correva, e così il gap in pochi anni è diventato praticamente incolmabile: «Quando in quegli anni la Nazionale giocava all’estero ti rendevi conto che le altre giocatrici avevano avuto più possibilità delle nostre, ad esempio giocando ogni anno tornei importanti come la Champions League. Fuori dall’Italia tutte le bambine giocavano a calcio mentre da noi sembrava che il numero delle appassionate diminuisse; invece di raggiungere la sua piena maturazione, il movimento si è disunito. All’epoca purtroppo questa percezione era viva in tutte le calciatrici italiane».

 

L’Italia è ancora indietro

In questi anni le altre nazionali – Stati Uniti, Germania e Giappone tra tutte – riuscivano a trovare una loro dimensione, e un loro seguito. Nel 1999 gli Stati Uniti vincevano i Mondiali in casa battendo la Cina ai rigori; di quel torneo è viva ancora oggi l’immagine dell’iconica esultanza di Brandi Chastain che, come raccontò lei stessa successivamente, portò gli Stati Uniti non solo a interessarsi di più al calcio femminile, ma anche a parlare di valori universali come l’educazione, l’inclusione e il rispetto.

 

L’edizione successiva dei Mondiali si sarebbe dovuta giocare in Cina, ma l’epidemia di Sars convinse gli organizzatori a spostare il torneo ancora negli Stati Uniti: quella volta, però, trionfò la Germania, battendo in finale la Svezia. Le tedesche si riaffermarono nell’edizione successiva, quella del 2007, mentre nel 2011 fu il turno del Giappone che strapazzò la nazionale americana in finale. Quattro anni più tardi, in Canada, le statunitensi si ripresero quello che non erano riuscite a conquistare nell’edizione precedente, con gli interessi. E mentre la storia del calcio femminile si arricchiva di aneddoti e narrazioni, l’Italia rimaneva in disparte.

 

«La Federazione – racconta Bertolini – ha preso più decisioni importanti in questi ultimi tre-quattro anni che nei quindici precedenti. Ma il vero cambio di rotta avverrà quando tutte le società e i settori giovanili, in tutto il paese, apriranno le squadre alle bambine. Maschi e femmine devono giocare in egual numero a livello dilettantistico, quando questo accadrà osserveremo davvero il cambio culturale tanto atteso perché anche i maschi inizieranno ad avere un atteggiamento diverso nei confronti delle ragazze. Ma è chiaro che siamo all’inizio e c’è tanto da fare; allargare la base è però l’obiettivo principale».

 

 

Oggi, a due partite dalla conclusione della fase di qualificazione a Francia 2019, e con l’Italia prima con 8 punti di vantaggio sul Belgio, sembra sia finalmente arrivato anche il turno della nostra Nazionale: «Sono 14 anni che alleno nel calcio femminile, conosco le qualità e le potenzialità delle ragazze, quindi non posso dire di essere rimasta sorpresa dai risultati. Ero già molto fiduciosa, ma questo percorso ha permesso alle ragazze di giocare al loro meglio, con una grande motivazione. Da settembre a oggi siamo riuscite a costruire qualcosa di fantastico, cercando di alzare l’asticella partita dopo partita».

 

Fino a questo momento l’Italia è stata una squadra solida e concreta, con 15 gol realizzati e solo 2 subiti. «Il concetto che sto cercando di far passare è che non esiste una fase offensiva e una difensiva, sono due aspetti integrati del gioco. Quello che mi sta piacendo molto è l’applicazione, le ragazze provano davvero a riproporre in campo quello che studiamo durante l’allenamento. Devono sentirsi libere di cercare la giocata ma contemporaneamente devono anche aggredire l’avversario, hanno le capacità per fare sia l’una che l’altra fase».

 

Purtroppo però le calciatrici italiane non sembrano ancora abituate a giocare a certi livelli e in Champions League il divario tra le nostre migliori squadre e quelle europee è ancora troppo elevato: «Finora abbiamo vinto tutte le partite ma devo anche essere molto realista, la salita sta aumentando e i prossimi impegni contro Portogallo e Belgio saranno difficilissimi. Quindi se da una parte valuto importantissimo il percorso fatto, so perfettamente che non è ancora abbastanza».

 

La storia di Milena Bertolini

Bertolini ha iniziato a giocare a calcio da piccola e la sua storia è probabilmente identica a quella di tante ragazzine che negli anni ’80, ’90 e 2000 si sono avvicinate al mondo del calcio, magari con grande entusiasmo, rimanendone però scottate nella maggior parte dei casi. «Mi allenavo esclusivamente con i maschi e soffrivo molto di non poter giocare con le altre bambine, ma non esistevano le squadre femminili. È stata una vera sofferenza nel fisico e nell’animo anche perché tutti mi scambiavano per un maschio per via dei miei capelli corti; penso che queste siano piccole cose che inevitabilmente lasciano una traccia indelebile nello spirito di una bambina. Crescendo è poi aumentata in me l’idea di poter dare un contributo in questo ambiente, lottando per permettere alle ragazze di avere le stesse opportunità dei maschi».

 

Oggi, dopo tanti anni, pensare di vedere le ragazze raggiungere il traguardo del Mondiale non è più un sogno, tanto quanto quello di riconoscere alle calciatrici un’identità professionale negatagli da sempre: «Da CT della Nazionale femminile sono sempre più convinta che portare le ragazze in Francia il prossimo anno sia la mia missione. Giocare il Mondiale significherebbe abbracciare un obiettivo molto più grande di quello sportivo».

 

 

Certo, questo non deve farci dimenticare quanta distanza deve ancora colmare il nostro paese. Le calciatrici italiane, anche quelle che indossano la maglia azzurra, non sono ancora riconosciute come professioniste e questo fa capire quando il dibattito in Italia sia ancora in una fase primitiva, mentre nel resto del mondo si parla di riservare alle giocatrici un trattamento economico e un riconoscimento sociale simile a quello riservato ai maschi.

 

Le ragazze lavorano (o studiano) e si allenano tutti i giorni, spesso ricevendo solo un rimborso spese dalla società d’appartenenza: «È chiaro che stanno lottando per cercare di migliorare la situazione. Non si pretende di avere gli stipendi di Messi e Ronaldo ma le nostre calciatrici vorrebbero essere riconosciute come professioniste. Fare questo significherebbe dare un senso a tutto il lavoro che portano avanti durante un’intera carriera, 15 anni della loro vita. Quindi, prima ancora di chiedere una parità a livello economico chiederei l’opportunità di essere messe nelle condizioni di poter chiamare questa attività “lavoro”. Una medaglia olimpica femminile deve avere lo stesso valore di una maschile, e la stessa cosa deve verificarsi nel calcio».

 

Il calcio femminile è pieno di stereotipi sulla qualità del gioco, sulle bellezza delle ragazze e sulla loro sessualità, e combattere tutto questo è parte della lotta che si conduce ogni giorno per far evolvere il movimento. Permettere ai tifosi che seguono ogni domenica la Serie A maschile di avere accesso in maniera immediata anche alle partite femminili permetterebbe di abbattere questi cliché, perché si renderebbero conto che non si tratta di una disciplina tanto lontana dal suo corrispettivo di genere: «Nella Fiorentina, nel Brescia e nella Juventus, società dove negli ultimi anni sono emerse le condizioni per lavorare bene, le ragazze giocano a livelli più alti rispetto ad altri posti dove ci sono meno possibilità e quindi meno organizzazione. Ma se guardiamo una partita della Nazionale femminile vediamo del bel calcio perché, in generale, nel calcio femminile c’è armonia ed eleganza. Le ragazze hanno una voglia matta di apprendere, sono libere di testa e hanno un approccio molto attivo. Naturalmente non siamo ancora arrivate allo stesso livello tecnico dei maschi, ma questo non perché le ragazze non siano capaci a giocare in un certo modo quanto per il fatto di non essere messe nelle condizioni di giocare e allenarsi bene». Dal tono di voce della CT si capisce come questa rappresenti per lei la giù grande sfida del calcio italiano: permettere alle bambine di poter coltivare la passione per questo sport come viene permesso da sempre ai bambini.

 

Nel 2011 Bertolini si è trasferita per qualche tempo a Barcellona per studiare la Cantera del Barcellona e approfondirne il metodo. Quell’esperienza le ha trasmesso ulteriori convinzioni sulla natura universale del calcio: «Il calcio è uno e può essere spiegato a tutti». Approfondendo il discorso, però, emergono anche delle differenze nelle due versioni: «Il calcio maschile è più essenziale, lineare e potente; i calciatori vengono allenati per essere più concreti dell’avversario; l’uomo guarda più alla finalizzazione rispetto al calcio femminile dove invece c’è molta più costruzione e lavoro di squadra. Questo aspetto si può legare anche alla psicologia, che vede la donna padrona di un pensiero più circolare rispetto all’uomo. Non è un caso che il calcio di Guardiola sia stato raccontato anche come molto femminile; condivido il pensiero, quel Barcellona giocava sulla tecnica, sui fraseggi e sul gioco corto, era una squadra che arrivava al gol con tanta manovra; queste sono tutte caratteristiche che osserviamo nel calcio femminile».

 

Alle ragazze di Bertolini mancano due partite per coronare il loro più grande sogno: partecipare al Mondiale. L’8 giugno affronteranno il Portogallo all’Artemio Franchi di Firenze mentre il 4 settembre voleranno in Belgio per la loro ultima partita di qualificazione: «Non è facile tenere alta l’attenzione sul calcio femminile ma il mio obiettivo è anche quello di trasformare questa squadra in un modello di riferimento per le ragazzine e per il loro futuro. La speranza è che possa cambiare il pensiero collettivo rompendo i soliti pregiudizi. Sarebbe una grande conquista, per ora è la mia missione».

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