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Omar Enrique Sivori

Post in rilievo

«Omar Sivori è un vizio», soleva ripetere l’avvocato Giovanni Agnelli con un accostamento tanto colorito quanto efficace.

Omar arriva da Buenos Aires nell’estate del 1957, grazie al programma del dottor Umberto Agnelli, che esige il rilancio della Juventus dopo cinque stagioni di vacche magre. Omar è uno degli “Angeli dalla, faccia sporca” del calcio argentino. Non è alto, ha un baricentro piuttosto basso, dettaglio importante per un calciatore, una zazzera corvina e lo sguardo pungente di chi ti vuole prenderti in giro.

Il resto della storia non ha misteri. Su di lui sono stati versati torrenti di inchiostro. Il suo è un calcio diabolico, cinico, quasi maligno, che nasce dal piede di un prestigiatore fatto per “pungere” i difensori e divertire il pubblico. La scuola argentina gli ha insegnato che innanzitutto conta il divertimento, lo spettacolo, il numero ad effetto del giocoliere. Omar, però, è anche essenziale. È perfetto nel “profilo”, la posizione del corpo rispetto alla palla. Quando corre in linea retta verticale, per superare meglio chi gli si affianca si esibisce in ripetuti tocchi prima di cambiare direzione in diagonale, d’improvviso, con carezza d’esterno, proprio in mezzo alle gambe dell’avversario che sta effettuando la normale falcata. È il momento del “coup de théatre”, il famoso tunnel. Questione di tempo e di coordinazione. Il pubblico delira. Omar è imprevedibile e fantasioso quanto istintivo. La sua grandezza si definisce soprattutto nella capacità di mantenersi freddo in area di rigore, là dove i calciatori di solito perdono la testa con entrate tempestose.

«Omar», racconta Caroli, «aveva il sorriso di un adolescente che sa tutto della vita. Era simpatico, di battuta pronta e salace. Prima di ambientarsi con il fuso orario del nostro meridiano passarono tre mesi. La notte non riusciva a prendere sonno. Durante la tournee in Svezia divise la camera con Garzena. Le assegnazioni venivano stabilite da una partita a scopone. Prima di spegnere la luce, Bruno si sentiva ripetere, come una litania insopportabile, “Parlami dell’Italia e della tua fidanzata ma non dormire, altrimenti impazzisco”. Garzena era costretto a fare le ore piccole per impedire che quei giorni tanto lunghi portassero il genio argentino sull’orlo dell’esaurimento. Una volta preso sonno, Omar dormiva fino a mezzogiorno e non si contano le volte in cui si presentò tardi all’appuntamento con gli allenamenti.

In campo era uno spettacolo. Come in partita, del resto. Quando correva in verticale e spingeva il pallone con tocchi ripetuti e brevi era imprendibile. Per bloccarlo ci voleva la doppietta da caccia. Il “profilo”, la posizione del corpo rispetto al pallone, era perfetto. Non si riusciva mai a sapere quale direzione prendesse. Il tunnel era il colpo di teatro da regalare alla platea. Lo eseguiva in tanti modi, il più strano lo effettuava correndo al tuo fianco. Un colpo di magia che stordiva. Mentre cercavi invano di intervenire, con disinvoltura e guardando avanti toccava il pallone lateralmente, scegliendo il tempo con precisione incredibile, quando avevi una gamba sollevata dal suolo, secondo gli sviluppi normali della falcata. Il pallone ti sfilava in mezzo alle gambe senza che tu potessi intervenire. E lui, sorridendo con malizia, passandoti dietro, andava a raccogliere il pallone ed i battimani del pubblico.

Con Garzena aveva fatto una scommessa singolare: “Mi pagherai una cena ogni volta che farò passare il pallone fra le gambe del primo avversario che mi viene a tiro dopo il fischio d’inizio dell’arbitro”. Il “Falco di Venaria” accettò. La sfida si riferiva alle amichevoli che la Juventus doveva disputare in Inghilterra e che rientravano nell’operazione dell’acquisto di Charles. Gli inglesi, si sa, sono impulsivi. Ed Omar sapeva che avrebbe avuto ottime possibilità di riuscita. Boniperti toccava il pallone piano, l’avversario si avventava contro Omar, il quale, con indifferenza e precisione, infilzava le gambe avversarie. Garzena pagò tre cene e rinuncio alla disputa».

Per lui tutto è un gioco per ragazzi. Gli avversari non fanno complimenti, ma Omar è astuto come una volpe e difende la palla sollevando e inclinando il piede a protezione della stessa, in modo che l’avversario calci contro la pianta della sua scarpa. Quando supera il portiere lo fa con irriverenza, mai di forza e piuttosto con perfida delicatezza. Sfrutta con estrema abilità gli assist di John Charles, un gallese stupendo per generosità e forza penetrativa.

«C’era il desiderio di fare qualcosa di speciale, di “giocare” con gli avversari. Per cui, giocavo con i calzettoni abbassati per far vedere che non avevo paura; c’erano i tunnel, i dribbling, tutto quello che si poteva fare per innervosire i rivali. Io, poi, sentivo moltissimo il pubblico, non riuscivo a far finta di niente. Ed i miei compagni si divertivano tantissimo con queste mie esibizioni».

È un emotivo: quante volte lo si vede sbiancare prima di una gara importante. È terrorizzato dai viaggi in aereo. In campo non esibisce un bel carattere: è infatti squalificato per 33 giornate complessive. È il suo tallone di Achille. Il tallone di un campione immenso.

«Io e Boniperti avevamo una concezione totalmente diversa del calcio e non riuscivamo ad andare d’accordo. Tutto lì, avevamo dei caratteri forti ed inconciliabili. In campo, però, questo dissidio non aveva alcuna conseguenza; si giocava senza pensare alla differenze od alle polemiche».

Tanti sono gli aneddoti da ricordare.

In un Juventus-Sampdoria portò la sua irrisione verso gli avversari ad un punto estremo: scartato anche il portiere, si fermò sulla linea con il pallone sotto la suola, aspettando il recupero del difensore avversario, e quando il poveretto (Vincenzi) si avventò a corpo morto, spostò il pallone indietro mandandolo a vuoto, per poi appoggiarlo in rete.

«Stavamo vincendo 3 a 0 con il Padova», ricorda Omar, «e la partita stava già finendo, quando l’arbitro ci concesse un rigore che i padovani contestarono vivacemente, nonostante non avesse influenza sul risultato finale. Vedendo la disperazione di Pin, il portiere, mi avvicinai e gli dissi: “Non preoccuparti, tanto lo tiro sulla sinistra”. Andai sul dischetto ed, ovviamente, tirai sulla destra, segnando. Pin si arrabbiò come un matto, inseguendomi ed insultandomi. Non me la perdonò mai. Lo incontrai nuovamente, un paio di anni dopo su una spiaggia, e lui ancora si arrabbiò. Inutilmente tentai di spiegargli che io avevo inteso “la mia sinistra” e non la sua. Non ci cascò e continuò ad odiarmi».

All’atto della presentazione, Sivori fece qualche palleggio davanti agli occhi dell’Avvocato, il quale, da grande intenditore, gli fece notare che era bravo, ma che non sapeva usare il piede destro. Omar prese il pallone e fece tre o quattro giri di campo palleggiando con il sinistro, senza mai far cadere il pallone. Poi si fermò davanti all’Avvocato e con la sua naturale sfrontatezza disse:

«Secondo lei, cosa ci dovrei fare con il destro ???»

Una mattina Sivori si presentò all’allenamento con gli occhi gonfi di sonno; i compagni stavano già facendo i soliti giri di campo da una ventina di minuti. La giornata era bella ed Omar si sdraiò sull’erba. Arrivò Gren, il “Professore”, che era allenatore della Juventus, affiancato da Carletto Parola. Ebbene, Gren si sdraiò di fianco a lui e gli passò il pallone sul piede; Omar, sentendo la palla, aprì gli occhi e si mise a palleggiare, passandosela dal destro al sinistro, dal sinistro al destro, sempre rimanendo coricato. Quindi passò il pallone al “Professore”, anche lui sdraiato sull’erba, e diedero vita ad un numero da circo, da autentiche foche del calcio. Ad un tratto si alzò e piazzò la palla sulla lunetta dell’area di rigore; scommise con Gren e Parola, sulle traverse e sugli incroci che avrebbe colpito. Ne fallì uno su dieci. Ogni tiro era annunciato: incrocio dei pali sulla sinistra, palo interno sulla destra, traversa centrale. E così fece.

Erano anni molto difficili per gli attaccanti, soprattutto quelli dotati di grande talento, come il “Cabezon”. I difensori erano soliti tracciare, con i tacchetti, una riga fuori dall’area di rigore minacciando il malcapitato attaccante di entrare duramente se l’avesse superata. Sivori non solo la oltrepassava allegramente, ma aveva la fissazione di umiliare l’avversario facendogli tunnel e, magari, di ritornare a sfidarlo per farglielo una seconda volta. Così, un giorno a Torino, lo stopper del Catania, tale Grani, lo minacciò, dicendogli che, al ritorno, gli avrebbe spaccato una gamba. Omar, con molta calma, accettò la sfida, avvertendo il difensore di affrettarsi a farlo, altrimenti se ne sarebbe pentito. Detto e fatto; dopo pochi minuti del match del “Cibali”, del 26 febbraio 1961, il “Cabezon” entrò con il piede a martello del povero Grani, distruggendogli il ginocchio.

Sivori realizza 167 reti nelle 253 partite disputate in maglia bianconera. Vince tre scudetti e due Coppe Italia e si aggiudica nel 1961 il “Pallone d’oro”. Si trasferisce al Napoli nel 1965 per incompatibilità di carattere con Heriberto Herrera, il “sergente” paraguaiano.

«Sivori come Coramini», aveva detto il “ginnasiarca”.

«Purtroppo, si arrivò al distacco definitivo. Non riuscivamo ad intenderci ed a concepire il calcio nella stessa maniera. Me ne andai io, nonostante la stima della società, perché non mi sembrava giusto porre il dilemma “o Sivori o Herrera”. L’allenatore doveva restare ed io andare, non potevamo restare insieme. Inizialmente, pensai di tornare in Argentina, ma alla fine mi convince Flavio Emoli, ex capitano juventino approdato al Napoli, a tentare un’altra avventura italiana».

Per Omar, da quel giorno, cominciano a sognare i tifosi partenopei.

 

Il racconto di Caminiti:

«La storia del calcio mondiale si arricchisce anche di partecipazioni straordinarie, assi dall’incredibile talento e l’increscioso carattere, tipi umani da prendere con le molle. Ce ne sono stati, ce ne saranno sempre. La tempra del carattere è alla base della classe, e si può essere forti in molti modi; c’è la forza temperata dall’educazione, dal rispetto di sé da cui nasce il rispetto per gli altri; e c’è la forza selvaggia, istintiva ed emotiva. Sivori, un po’ come George Best appartiene a questa seconda categoria di fuoriclasse specialisti.

Egli anticipò in tutto le stravaganze di Maradona, salvo domarle con un carattere durissimo e spietato, da capo indio, fin dalle guance butterate ed i fondi occhi neri che sapevano bruciare di odio come accendersi d’amore.

Contrariamente a quanto si è letto, Sivori non fu subito accolto in Italia da consensi della critica. La sfortunaccia di un esordio agostano in notturna in amichevole a Bologna con sonora legnata che preoccupò il giovane saggio Umberto Agnelli, partecipò a suscitare qualche perplessità sul suo modo di interpretare il calcio e su come avrebbe potuto adattarsi a quello nostro. “Carlin” se ne fece interprete sulle colonne di “Tuttosport”, dove scriveva ogni mercoledì una seguitissima pagina di critica satirica: quell’argentino dall’arruffato testone ed i calzettoni arrotolati alla “cacaiola” sulla caviglia, rallentava il gioco, considerava la squadra una proprietà personale.

“Carlin” fu smentito nei fatti, fu saltato anche lui in tunnel dal diabolico Omar. E se era vero che aveva un’opinione del calcio tutta sua, più vero ancora era che, accoppiato a Charles, andava a costituire un tandem irresistibile, Omar in particolare col suo coraggio sprezzante, la sua sfida a stinchi nudi ai più smaniosi terzini, la sua classe a passettini incalzanti che lo portava ad esprimere nel tunnel, pallone fatto passare tra le gambe divaricate dell’avversario, la “summa” della sua strategia individualistica.

Non amava allenarsi, anche se sopportò per il primo anno il serioso e bravo slavo Brocic, che Giordanetti aveva assunto per corrispondenza, ma in campo, in condizioni fisiche appena passabili, faceva la differenza; il suo goal era catturato nel vivo delle difese, irrideva alla forza con la tecnica più spericolata nel possesso ed uso del pallone.

Volle, al secondo anno, avere come allenatore il suo maestro e scopritore Cesarini, le sue bizze e la sua nevrosi della fama lo fecero squalificare a ripetizione (il più squalificato giocatore d’Italia, secondo solo ad Amarildo: ben 33 giornate di squalifiche). A quali vette avrebbe potuto attingere se avesse anche saputo darsi un contegno atletico, se si fosse allenato seriamente, se avesse avuto più equilibrio in campo e fuori ??? In campo, spesso impazziva letteralmente, nonostante la saggezza materiata di disciplina che Boniperti infondeva alle truppe, lui se ne tirava fuori. Agiva sempre di sua testa, non obbediva a nessuno. Viveva la partita in prima persona singolare indeclinabile, tenendo palla come e quanto volesse. Vero che i suoi fulgori tecnici furono titanici, e tante sue partite restano memorabili anche sotto l’aspetto strategico; ma qui siamo all’ultimo anno di Boniperti calciatore, il secondo e terzo scudetto di questo fenomeno maldicente linguacciuto rimangono pietre miliari nella storia del campionato.

Le cronache di calcio celebrarono le insuperabili prodezze di Ornar per la fabbricazione di quei due scudetti artistici, dopo i quali l’asso di San Nicolas cominciò a rabbuiarsi. Eppure aveva accelerato i tempi del ritiro di Boniperti. Eppure era rimasto sulla tolda del comando. Ma bisogna che un fuoriclasse sappia innanzitutto comandare a se stesso.

Il declino atletico di Sivori cominciò presto. La Juventus, ingaggiata da Heriberto Herrera per ripristinare l’ordine professionale, lo mandò per disperazione al Napoli. Toccò a Piercesare Baretti raccontare su “Tuttosport” la malinconica guerra privata tra Heriberto ed Omar. La vinse Heriberto, perché la Juventus non ha mai tollerato i ribelli».

 

 

sivori.jpg

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Così, un giorno a Torino, lo stopper del Catania, tale Grani, lo minacciò, dicendogli che, al ritorno, gli avrebbe spaccato una gamba. Omar, con molta calma, accettò la sfida, avvertendo il difensore di affrettarsi a farlo, altrimenti se ne sarebbe pentito. Detto e fatto; dopo pochi minuti del match del “Cibali”, del 26 febbraio 1961, il “Cabezon” entrò con il piede a martello del povero Grani, distruggendogli il ginocchio.

 

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il più grande di tutti i tempi insieme a pelè

 

Straordinario! E' quello che ho sempre sostenuto anch'io. L'unico vero problema di Sivori è che il meglio di sé l'ha dato nella seconda metà degli anni 50, quando praticamente non c'era la TV. Se fosse nato 30 anni dopo, sarebbe satto osannato come uno dei primi 3 top players di tutti i tempi. Comunque, a mio avviso, il miglior n. 10 che abbia mai vestito la gloriosa maglia a strisce bianconere. :)

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il più grande di tutti i tempi insieme a pelè
Il secondo irraggiungibile, il primo gli sarebbe andato molto vicino con un pò più di serietà professionale...ma così non sarebbe stao "El Cabezon"...gioie e dolori degli avversari e dei tifosi. .ok

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