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AlessandroMagno

Sfide (Rai 3): "Zoff, il numero 1"

Post in rilievo

Che peccato che si ritiro' insieme a Bettega (e Furino?) perdendo quella maledetta coppa ad Atene.

 

Furino si ritirò nel 1984 dopo aver vinto l'ottavo scudetto, ma in quell'ultima stagione giocò davvero poco.

Zoff si ritirò dopo Atene mentre Bettega fece un ultimo anno in Canada (Toronto Blizzard).

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Furino si ritirò nel 1984 dopo aver vinto l'ottavo scudetto, ma in quell'ultima stagione giocò davvero poco.

Zoff si ritirò dopo Atene mentre Bettega fece un ultimo anno in Canada (Toronto Blizzard).

Grazie ronny :) Sai, inoltre, come Vieri nel 2006, io considero Bettega virtualmente campione del mondo, salto' il mondiale per un infortunio dopo che ci qualifico' a suon di gol a 30 e passa anni!!

 

Il mio ricordo di Zoff è legato a quella mitica stagione 89-90 dove pur non disponendo di fenomeni, portò a casa una coppa Uefa che all'epoca valeva molto e una coppa Italia battendo a domicilio una squadra fin li invincibile!!

Quando lo cacciarono per prendere quel pagliaccio mi misi a piangere sul serio (avevo 10 anni) e visto come andarono le cose forse un po me lo sentivo!

L'hai vista poi la finale? Io ho visto solo l'andata, devo dire che fummo organizzati anche all'andata e giocammo una buonissima gara!

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Perugia Parma, Juve Chievo 2001, Italia Corea 2002, Atalanta Juve 2004,Juve Lecce 2011, Bayern Juventus (entrambi i gol) Juve Sampdoria 2012, italia Croazia questi sopno quelli che mi sono venuti in mente pensandoci giusto 30 secondi....Questo pe dimostrare che tutti hanno fatto errori anche in partite decisive, siamo essere umani nessuno è infallibile. buffon è e sara' ricordato come un grandissimo nel suo ruolo ma le leggende sono altre nel calcio e si contano utilizzzando le dita di una mano (Maradona Pele' Cruijf Di Stefano Zoff appunto)Non contano solo le capacita' tecniche per essere leggenda questa è una condizione necessaria ma non sufficente, altrimenti Baggio o Van Basten Platini o Zidane potrebbero essere leggende nonche Messi o Zico Baresi o Maldini, tutti grandissimi ma l'ultimo step quello per esssere ricordati come leggenda lo compiono solo in pochi. Per questo serve carattere personalita stravaganza unicita'. Al Buufon ridolini dell'epoca Cobolli non si possono certo attribuire le caratteristiche sopra elencate, neppure una tra tutte queste. Macchia oper me indelebile nella carriera di uno che deve essere considerato leggenda

Hai dimenticato anche una papera a Bergamo contro l'Atalanta!

Guarda capisco il tuo ragionamento, pero' per i portieri secondo me bisognerebbe fare una classifica a parte, in quanto giocatori non di movimento.

Buffon ha avuto 2-3 anni bui, ma poi si e' ripreso alla grandissima, e tuttora a 37 anni e' il miglior portiere in Italia.

Nella mia top 5 dei portieri di sempre metto: Yashin, Zoff,Buffon,Smeichel e Kahn, purtroppo pero' di portieri prima del 50 ne so davvero poco.

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Hai dimenticato anche una papera a Bergamo contro l'Atalanta!

Guarda capisco il tuo ragionamento, pero' per i portieri secondo me bisognerebbe fare una classifica a parte, in quanto giocatori non di movimento.

Buffon ha avuto 2-3 anni bui, ma poi si e' ripreso alla grandissima, e tuttora a 37 anni e' il miglior portiere in Italia.

Nella mia top 5 dei portieri di sempre metto: Yashin, Zoff,Buffon,Smeichel e Kahn, purtroppo pero' di portieri prima del 50 ne so davvero poco.

 

Carissimo , prima di affidarmi a " .lazy Morfeo " , ti passo questo elenco !

Alcuni non li ho visti di persona , qualcun'altro , forse , è un pò un intruso , ed altri ancora ..mancano !

 

Tuttavia trattasi di un' Ottima ... Piacevole ed Istruttiva ... Cernita !

 

Di sicuro , tra costoro , non troverai mai il " Mio Preferito " : sebbene segua la Nostra Juve sin dal 1958 ed ho avuto la

fortuna di apprezzare Grandissimi ed Ottimi Numeri 1 a difesa della Nostra Porta , pur , forse , non raggiungendo i livelli

di un paio di essi , nella mia " Personale ed Opinabile Classifica " , al primo posto metterò sempre ANGELO PERUZZI !

 

uum Sbaglio ? Può darsi ! Ma , cosa vuoi che ti dica , anche la " Consapevolezza dell'Errore " ha un suo Perverso Fascino ...

collocabile nell'ambito del .. " DE GUSTIBUS NON DISPUTANDUM EST " ... o , se preferisci .... " ERRARE E' UMANO ...

( :( e di errori , nella mia vita , ne ho fatti a iosa ) ... PERSEVERARE E' DIABOLICO " :d !

 

- E' un'elenco a puntate : vado e torno ! Alla prossima ! :) Stefano !

 

- Tratto da Altervista - Storie di Calcio - !

 

- Quello del portiere è il ruolo più folle, più romantico e letterario del

 

calcio. Chi gioca tra i pali possiede qualcosa in più, e non soltanto rispetto

agli altri giocatori. È un predestinato, dotato di carisma e coraggio.

Viaggio tra i più grandi numeri uno della storia del calcio

 

Flashback sui Mondiali 1970, storica semifinale

tra Italia e Germania Ovest, secondo tempo

supplementare. Il centravanti tedesco Gerd Müller

colpisce di testa su assist di Seeler, sulla linea

azzurra c'è Rivera, cui Ricky Albertosi grida

imperioso: «Tua!». Il "golden boy", però,

inopinatamente si scansa, il pallone entra in rete e

lo stesso Rivera sta cercando di addentare il palo

dalla rabbia quando il portiere azzurro, inveendo

contro di lui, gli prende il collo tra le mani e

sembra volerlo strozzare. Il Gianni nazionale si

divincola, trotterella in avanti e va a segnare il gol

del definitivo 4-3, sull'azione immediatamente

successiva. Enrico Albertosi, il portiere fenomeno

della manifestazione, stringe i pugni: l'Italia è in

finale. Un traguardo conquistato a suon di

prodezze, con voli mozzafiato che ne fanno uno

dei più spettacolari guardiani di ogni tempo. E

certo uno dei più duri con i compagni, per i quali,

a ogni gol subito, si chiamino Rivera o Nessuno, ha

sempre pronto un rimprovero a muso duro: «Guai

se un portiere si fa prendere dal dubbio di avere

sbagliato» spiega. «Una sola certezza deve

assisterlo: lui non sbaglia mai, la colpa è

sempre degli altri. Così non si abbatte».

 

Enrico Albertosi era nato a Pontremoli, in

provincia di Massa, il 2 novembre 1939 e dopo i

primi exploit nello Spezia era passato come enfant

prodige alla Fiorentina. Fisico stratosferico, colpo

d'occhio eccezionale, riflessi felini e quella facilità

di inarcarsi in volo che conquistò subito tecnici e

Portiere1.jpg

grandi_portieri_1524.png

 

I PIU' GRANDI

NUMERI

UNO

Albertosi_Milan_1980_01.jpg

 

tifosi. Davanti, però, a Firenze aveva Giuliano Sarti, il portiere dello scudetto, antispettacolare per

antonomasia, maestro del piazzamento e del calcolo a scapito della spericolatezza.

Così si ebbe l'assurdo: Albertosi, precoce e brillante esordiente in A, conquistò presto un angolo di

Nazionale, con la partecipazione ai Mondiali in Cile ad appena ventidue anni, ma restava riserva in

viola. Finì che se ne andò senza consumare mai appieno quelle nozze: via da Firenze, si ritrovò a

Cagliari, per la leggendaria avventura dello scudetto 1970.

 

Lo sguardo sgherro, il sorriso da simpatica canaglia, l'ostentazione di una beata indifferenza alle

regole correnti (gli piaceva fumare e frequentare gli ippodromi), tutto si sublimava nel rendimento sul

campo. Quando venne ceduto al Milan, dopo sei stagioni sull'isola, aveva 35 anni e secondo i

benedetti stereotipi era destinato al declino. Invece tirò avanti alla grande. Vinse nel 1979, a

quarant'anni, lo scudetto col Milan e già si parlava di un possibile, clamoroso ritorno in Nazionale

quando lo scandalo delle scommesse lo appiedò per quattro anni. Tornò a riveder le stelle per la

vittoria azzurra in Spagna e volle tornare sul campo, stavolta in C2, all'Elpidiense, a far miracoli a

quarantatre anni suonati. Chiuse nel 1984, dopo un grave infortunio, il primo della carriera, a un

ginocchio. In totale, aveva collezionato 532 partite in A (185 nella Fiorentina, 177 nel Cagliari, 170 nel

Milan) e 47 in C2. Con due scudetti, tre Coppe Italia e una Coppa delle Coppe. Più 34 partite in

Nazionale, con quattro Mondiali (Cile 1962, Inghilterra 1966, Messico 1970 e Germania 1974).

grandi_portieri_0682.png

ENRICO ALBERTOSI

grandi_portieri_0683.png

GORDON BANKS

Banks_Gordon_bn.jpg

 

La tradizione vuole che sia sua la parata più

straordinaria di tutti i tempi, noblesse oblige su

Pelé. Capitò al Mondiale 1970, i campioni uscenti

inglesi affrontavano i futuri successori a

Guadalajara, a un certo punto il leggendario "rey"

del calcio mondiale salì altissimo, come soleva, a

raccogliere un cross di Jarzinho per schiacciarlo

dall'alto in basso col suo tipico colpo di testa che

equivaleva a un'esecuzione, a un metro dalla linea

del gol: dal palo opposto, Banks scattò in un

volo prodigioso, arrivando all'altro estremo della

porta fino a colpire la palla col pugno mentre

stava rimbalzando da terra verso il fondo della

rete e ad alzarla sopra la traversa. Si ebbe i

compli-menti del grande avversario, che

d'altronde non fece poi mistero, assieme a

Greaves e Bobby Charlton, di considerarlo "il

migliore del mondo".

 

Era nato il 20 dicembre 1937 e cresciuto nella

rinomata "accademia dei portieri" del

Chersterfield, nelle cui file aveva esordito a

diciotto anni, per diventare titolare a venti.

 

Riconosceva come maestri Bert Williams del Wolverhampton, portiere dell'Inghilterra dal 1949 al

1956, e il leggendario Bert Trautmann, tedesco, ex prigioniero di guerra, grande numero uno del

Manchester City dal 1949 al 1963. Nel 1959 passò al Leicester City.

Esordì tardi in Nazionale, in quanto "chiuso" da Springett. Quando a quest'ultimo fu imputato il

tracollo parigino del febbraio 1963 in Coppa Europa (Francia-Inghilterra 5-2), arrivò finalmente il

turno di Gordon Banks, che esordì il 6 aprile 1963 a Wembley contro la Scozia, peraltro con un'altra

sconfitta (1-2), nella finale del campionato interbritannico. Da allora il posto fu suo e legittimamente,

come confermò subendo solo tre reti al Mondiale vittorioso giocato in casa nel 1966.

 

Agilissimo nonostante la stazza, formidabile nel colpo di reni, aveva colpo d'occhio e senso del

piazza-mento, uniti al carisma che ne faceva il leader della difesa. Venne chiamato "Banks of England",

a significare l'aurea sicurezza che rappresentava per la sua Nazionale. La sua fama si estese nel

mondo, venne considerato in lizza col grandissimo Jascin per la palma di miglior estremo difensore

del mondo. Nella primavera del 1967 passò allo Stoke City, con cui nel 1972 vinse la Coppa di Lega,

già conquistata col Leicester.

Chiuse con la Nazionale il 27 maggio 1972 (vittoria in Scozia per 1 -0), con 73 presenze, nel pieno

della maturità.

 

Il 1 ottobre 1972, di ritorno in auto a casa da una seduta col massaggiatore, a seguito di un

sorpasso azzardato si scontrò frontalmente con un'altra auto, restando ferito irreparabilmente

all'occhio destro, che perse la vista. Si dedicò allora alle giovanili dello Stoke City (nel febbraio 1975

accompagnò al Torneo di Viareggio i suoi deludenti ragazzi). Ma dopo qualche tempo,

incredibilmente, cedette al richiamo del campo: riprese negli Stati Uniti, giocando due stagioni (1978

e 1979), pur cieco da un occhio, con il Fort Lauderdale. Un'impresa che alimentò vieppiù la sua

leggenda di straordinario fuoriclasse.

grandi_portieri_0684.png

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grandi_portieri_0686.png

GILMAR

grandi_portieri_0687.png

Gilmar_Brasile_bn.jpg

 

Neves dos Santos detto Gilmar, il più grande

portiere brasiliano di tutti i tempi, l'unico estremo

difensore ad avere vinto due Mondiali, nacque il 22

agosto 1930. Fisico svettante, colpo di reni, agilità

da giaguaro, coraggio in area di rigore: questo il

suo approccio a un ruolo in Brasile non amato («Il

portiere non è un giocatore di calcio»). Gilmar fu

presto campione, nelle file del Jabaquara, da dove

lo prelevò il Corinthians, con cui conquistò il titolo

paulista 1954. Esordì in Nazionale l'1 marzo 1953,

ma non venne convocato per i Mondiali 1954. Un

anno dopo diventava titolare della Selecão.

 

Plastico ed elegante, sobrio e corretto negli

atteggiamenti, straordinario nel colpo d'occhio,

nella presa e nella personalità con cui sapeva

guidare alla voce il reparto, divenne presto un

leader e un idolo del pubblico. Il trio "de los

Santos", con Djalma e Nilton Santos, divenne una

 

trave portante della Nazionale: 39 incontri giocati, tra cui due finali iridate vinte. Nel 1958 fu gran

protagonista del Mondiale svedese, anche se poi ricordava soprattutto il gol subito nell'avvio della

finale: «Quel diavolo di Liedholm ne aveva combinata un 'altra delle sue: finta di qua, finta di là,

tiro nell'angolino. Imparabile. Ma non eravamo noi i brasiliani? Quattro minuti e la Svezia già

vinceva. Didi raccolse la palla in fondo alla rete e la riportò a centrocampo fischiettando.

"Tranquilli, state tranquilli", disse a tutti noi. Eravamo una banda di incoscienti o sapevamo

davvero di essere i più forti? Ancora me lo chiedo...».

 

Nella sua modestia, a fine carriera si riconosceva un difetto: «Avevo un punto debole: le uscite. E

mi allenavo per ore e ore con l'unica... medicina possibile: i cross, tanti cross. Non è facile

diventare perfetti nelle uscite, chi ci riesce può dirsi il vero padrone dell'area». Lui lo divenne,

impersonando una leggenda vivente del calcio: 100 partite in Nazionale, l'ultima il 12 giugno 1969 a

Rio contro l'Inghilterra (2-1), a quasi quarant'anni. Gli chiesero di chiudere col quarto Mondiale, nel

1970, ma rifiutò, temendo di stropicciare il suo sontuoso blasone, arricchito dalle conquiste realizzate

col Santos dell'epoca d'oro, il Santos di Pelé, che gli aveva pianto ragazzino sulla spalla al termine

della finale di Svezia: due Coppe Libertadores, due Coppe Intercontinentali, dieci vittorie nel

campionato paulista, due nel Torneo Rio-San Paolo. Quando chiuse, lasciò il mondo del calcio per

occuparsi delle sue concessionarie d'auto (due Fiat e una Chevrolet) e dedicarsi al pallone solo come

hobby da giocare con gli amici. Fino al 1985, quando venne operato al cuore. Guarito perfettamente,

gli fu vietato dai medici di praticare ancora il calcio.

grandi_portieri_0688.png

LADISLAO MAZURKIEWICZ

grandi_portieri_0689.png

Mazurkiewicz_Ladislao_Uruguay.jpg

 

Il più grande portiere uruguaiano di ogni

tempo nacque il 14 febbraio 1945, da padre

polacco (ricavandone il soprannome "El Polaco",

il polacco) e madre spagnola. Da giovane si

appassionò al basket, ma la ridotta statura e

qualità non eccelse sopirono i suoi entusiasmi.

Fortuna volle che un osservatore del Racing

Montevideo ne avesse notato l'elevazione e la

combattività e gli proponesse di provare col

calcio. Era il 1962, Mazurkiewicz venne

"battezzato" portiere e le sue misure non

eccezionali (1,79 per 78 chili) da quel momento

non costituirono più un problema, grazie

all'agilità, al colpo d'occhio e alla presa ferrea.

 

Un breve addestramento, il tirocinio nelle

giovanili, poi bastarono le prime apparizioni tra i

titolari a guadagnarli un'offerta del Penãrol, con

cui conquistò al primo colpo il titolo nazionale,

nel 1965. Nel 1966 vinse la Coppa Libertadores,

 

figurando come uno dei protagonisti decisivi e conquistando il posto da titolare in Nazionale. Poche

settimane dopo, difendeva la porta dell'Uruguay ai Mondiali inglesi e veniva segnalato tra i migliori

numeri uno della manifestazione. Formidabile nelle uscite (celebre la sua presa alta), mobilissimo tra i

pali, felino nel colpo d'occhio e nello scatto, raggiunse in breve una precoce maturità, confermandosi

nella stagione successiva, quando conquistò la Coppa Intercontinentale col Penãrol e la Coppa

America con la Celeste; il suo nome circolava ormai nella ristretta cerchia dei migliori portieri del

mondo. Ai Mondiali 1970 era considerato il più forte numero uno del Sudamerica e le sue

prestazioni ne attestarono la strepitosa vena, contribuendo a portare la squadra fino alle semifinali,

dove il super Brasile degli artisti faticò non poco, riuscendo solo nel finale a far proprio il risultato.

Memorabile il duello con Pelé, che riuscì alfine ad aggirare il "mago" Mazurkiewicz, lasciandolo a

terra sulla lunetta dell'area, con un fantastico assolo passato alla storia della competizione.

 

Sicuro di sè, carismatico nel guidare a voce la difesa, Mazurkiewicz divenne un leader assoluto. Le

sue prestazioni sulla scena messicana gli valsero il passaggio in Brasile, all'Atletico Mineiro. Giocò

anche nel Granada, prima di tornare al Penãrol, in un finale di carriera turbato da una serie di

infortuni. Nel 1974 disputò in Germania il suo terzo Mondiale, confermandosi tra i pochi campioni

autentici della Nazionale celeste. Con la quale stabilì il primato di 713 minuti di imbattibilità. Con i

colori nero-oro del Penãrol, oltre a quattro titoli nazionali (1964, 1965, 1967 e 1968), mise in bacheca

il record di 985 minuti senza subire gol.

 

 

1)

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Venne considerato il più forte portiere del mondo e attorno alla sua figura di "eroe" nacque una

leggenda che ne mantiene vivo ancora oggi una sorta di culto come inarrivabile campione. Era nato il

21 gennaio 1901 e ragazzino era emerso nelle file dell'Universi-tari, da cui lo prelevò l'Espanol,

buttandolo nella mischia nel 1917, quando ancora portava i calzoni corti. Per sembrare più grosso

il giorno del debutto vestì un pesante maglione girocollo e si riparò il capo con un duro cappello

basco.

 

La spettacolarità dei suoi voli, spesso plasmati nell'aria con gusto puro della teatralità, ne fecero un

idolo dei tifosi. Esordì in Nazionale a diciannove anni, alle Olimpiadi del 1920, e difese la porta della

rappresentativa fino al 1936, totalizzando 46 presenze. Memorabile la sua prestazione contro l'Italia

nei quarti del Mondiale 1934, quando le sue prodezze sospinsero la squadra iberica a un passo da

una clamorosa vittoria. Ma Ferrari pareggiò e le botte ricevute in partita impedirono a Zamora di

essere presente il giorno dopo alla ripetizione, che gli italiani si aggiudicarono prendendo il volo

verso la vittoria finale.

 

Anche ai divini, tuttavia, capita di inciampare e Zamora non dimenticò mai il terribile pomeriggio del

9 dicembre 1931, sull'infido terreno di Highbury contro i Maestri inglesi. Vi giunse con la fama di più

grande portiere del mondo e ben sette volte dovette chinarsi allo strapotere di Dixie Dean e soci,

che chiusero con un eloquente 7-1. Nel 1919 passò al Barcellona, con cui conquistò due Coppe di

Spagna. Quattro stagioni dopo, divergenze di carattere economico gli fecero sbattere la porta.

Tornò all'Espanol, vinse un'altra Coppa di Spagna e giocò fino al 1930, quando un favoloso ingaggio

lo portò al Real Madrid, di cui fu leggendario guardiano per sei stagioni, chiudendo con le prodezze

che nella finale di Coppa di Spagna sbarrarono la strada al Barcellona. Era la seconda Coppa con le

"merengues", che aggiungeva a due titoli nazionali.

Poi, la guerra civile si prese la scena e il Divino riparò in Francia, per due stagioni di prodezze nel

Nizza. Nel 1938 si ritirò e tornò in patria. L'anno successivo era manager dell'Atletico Madrid,

avviando una nuova carriera, che lo avrebbe portato alla guida dell'Espanol e della Nazionale. È

morto l'8 settembre 1978.

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RICARDO ZAMORA

grandi_portieri_2_1526.png

VLADIMIR BEARA

Beara_Vladimir.jpg

 

Nessun dubbio: "il ballerino" è stato uno dei più

grandi portieri di tutti i tempi, gratificato di quel

soprannome per i precedenti come ballerino

dell'Opera di Belgrado, ma anche e soprattutto

per l'agilità e il virtuosismo dei suoi interventi.

Dotato di classe purissima per il ruolo, ha scritto

il suo nome nella storia del calcio soprattutto per

i prodigi compiuti in una celebre partita, giocata il

22 novembre 1950 contro l'Inghilterra e

pareggiata inopinatamente (2-2) dalla Jugoslavia,

accostatasi al match come vittima sacrificale. Il

titolo «Veliki Beara», grande Beara, con cui il

giorno dopo i giornali del suo paese ne

salutarono le prodezze gli valse un'aura quasi

eroica. Negli ultimi minuti in particolare la sua

imbattibilità era parsa miracolosa, essendo

riuscito a deviare a mani aperte sopra la traversa

persino una spaventosa sventola dell'ala

Hancocks che aveva tutti i crismi del tiro

imparabile. Il pubblico aveva applaudito a lungo,

Beara entrava nell'Olimpo dei grandi.

 

Era nato a Spalato nel 1927 e si era accostato tardi al pallone, in maniera quasi romanzesca. Appas-

sionato di calcio, un giorno, a vent'anni, assisteva all'allenamento dell'Hajduk di Spalato quando i

giocatori, dovendo provare i calci di rigore ed essendo indisponibili entrambi i portieri, chiesero se

qualcuno tra il pubblico avesse voglia di provare a mettersi tra i pali. Vladimir conosceva la propria

agilità e non aveva paura di niente: rispose all'invito. Di lì a poco, dopo aver sbalordito con i suoi voli

d'angelo, si vedeva proporre un ingaggio. Era il 1948. Due anni dopo, come visto, era titolare in

Nazionale, posto raggiunto dopo aver fatto il "secondo" ai Mondiali in Brasile, alle spalle di Mrkusic.

 

Alto, slanciato, con l'agilità di un gatto, era nato per dare spettacolo, anche per l'audacia al limite

della spericolatezza nelle uscite. Quando incontrò l'Italia, in una amichevole a San Siro nell'aprile

1951, potè farsi ammirare solo grazie a una speciale amnistia per meriti sportivi. Era infatti accaduto

che, di ritorno da una partita disputata con la Nazionale a Parigi, lui e Mrkusic erano stati fermati

dalla polizia jugoslava per contrabbando: avevano con sé parecchie valigie cariche di merce varia.

Oltre alle sanzioni del caso, subirono una sospensione di quattro mesi dall'attività. La sua

indispensabilità alla causa per indiscutibili meriti sportivi lo salvò. Ai Mondiali in Svizzera nel 1954 fu

titolare e strabiliò il pubblico con un prodigioso intervento nel match col Brasile, quando riuscì a

gettarsi sui piedi del centravanti Baltazar, ormai a pochi passi dalla rete, ad afferrare il pallone senza

toccare l'avversario e a scattare all'indietro in piedi così da evitare il rigore. Titolare anche quattro

anni dopo, al Mondiale 1958, chiuse la carriera nella Stella Rossa di Belgrado.

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SEPP MAIER

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Maier_Sepp_large-park.jpg

 

prima squadra fu il TSV Haar, da dove a quattordici anni si trasferì nelle giovanili del Bayern di

Monaco. In quel vivaio si ritrovò nel pieno di una fioritura di eccezionali talenti, con compagni come

Beckenbauer e Gerd Müller. A diciotto anni debuttava in prima squadra, diventando rapidamente

titolare e partecipando alla irresistibile ascesa del club dalla serie cadetta ai vertici europei e

mondiali. Il fisico asciutto (1,83 per 77 chili) e l'elasticità di movimenti ne fanno un agilissimo interprete

del ruolo. Soprannominato "Il Gatto", Maier diventa rapidamente uno dei punti di forza della squadra

grazie anche alla tempra fisica indistruttibile: dal 1966 al 1979, per tredici stagioni di fila non salta una

partita di Bundesliga.

 

Impressionante la sua bacheca di successi col club bavarese: quattro titoli nazionali, quattro coppe

di Germania, tre Coppe dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Intercontinentale. In

Nazionale fa il suo esordio il 4 maggio 1966 in un'amichevole vinta 4-0 con l'lrlanda a Dublino, che gli

vale l'inclusione nella lista dei 22 per i Mondiali inglesi, dove resta nell'ombra del titolare Tilkowski,

di cui è destinato a superare di gran lunga il primato di presenze nella "Nationalmannschaft" per un

portiere, 39. Giudicato incerto dopo i primi incontri in Nazionale, fa ricredere i suoi critici,

perfezionando la trattenuta del pallone dopo l'intervento e il senso della posizione, che diventano i

suoi punti forti, assieme alla prodigiosa agilità, al piazzamento sui calci di punizione e ai tu per tu con

l'attaccante lanciato a rete.

 

Gioca il Mondiale 1970, vince gli Europei 1972 e il Mondiale 1974, nella sua Monaco, dove le sue

sensazionali prodezze nel secondo tempo della finale con l'Olanda hanno un peso decisivo

sull'assegnazione del titolo. Memorabile il duello con Neeskens, davanti ai cui tiri si para

invariabilmente la grande ombra celeste, invalicabile barriera tra l'ambizione e gli esiti. La sua carriera

si interrompe improvvisamente nell'estate del 1979 quando, all'alba di una notte senza luna, si

infrange con l'auto contro un lampione, riportando gravi ferite, tra cui la frattura dell'avambraccio

destro e una lacerazione del diaframma che gli preclude la continuazione dell'attività agonistica.

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ALDO OLIVIERI

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Olivieri_Aldo.jpg

 

A Palazzo Venezia, nella festa del Mondiale 1938,

Mussolini gli toccò virilmente la spalla: «So che

l'eroe siete stato voi: avete salvato l'Italia».

Aldo Olivieri nel primo match, contro la

sorprendente Norvegia, aveva parato così bene

sul gigante Brynhildsen giunto solo davanti a lui,

da indurre l'avversario a fermarsi: «La palla andò

a sbattere all'incrocio dei pali: l'avevo appena

sfiorata con le dita deviandola in angolo. Prima

di battere il corner quel calciatore andò

dall'arbitro, gli chiese di fermare il gioco:

venne a stringermi la mano».

 

Aldo Olivieri aveva la grandezza del campione

nei mezzi atletici e nei riflessi felini, ma anche nella

cura con cui "studiava" il suo ruolo. Sosteneva di

aver rubato un segreto alle ballerine: andava a

 

spiare, nelle scuole di ballo, i passi piccoli che non fanno perdere l'equilibrio «e ti sposti che quasi

non te ne accorgi». Nella testa, serbava nel ricamo di una cicatrice i segni profondi del suo

coraggio di numero uno. Era accaduto il 31 dicembre 1933, al rientro nel Padova da un paio di

infortuni a una spalla, in un'amichevole con la Fiumana. L'irruenza di un attaccante su una sua

spericolata uscita gli aveva fratturato il cranio. I medici avevano lavorato col trapano per rimettere in

ordine ossa e idee e rimandare indietro la nera signora arrivata in anticipo. Era rimasto fermo sette

mesi, poi aveva dato un calcio ai consigli dei dottori, ricominciando a darne al pallone.

 

Per cinquantanni quel buco nella testa, parola sua, lo fece svegliare regolarmente col mal di testa e

lo rese sensibile al clima: «In ritiro, quando ero al Torino, andavo dai miei compagni e dicevo:

oggi pomeriggio usate i tacchetti lunghi, pioverà. E loro: ma come, c'è il sole. Pioverà,

pioverà, lo dice la mia testa. E regolarmente pioveva».

L'uomo della pioggia era nato a San Michele Extra, vicino a Verona, il 2 ottobre 1910, e la prima

vocazione l'aveva avvertita per il ciclismo. Alla prima corsa in montagna, però, si era arreso

ansimante; gli amici gli avevano chiesto allora di giocare in porta, lui lungo e secco, in un torneo

giovanile: «Al debutto presi quattro gol. Allora andai a vedere come si allenavano i portieri e

seguii il loro esempio. A fine torneo la mia squadra si classificò seconda e mi diedero la

medaglia d'argento come miglior portiere». Aveva trovato la sua strada. Lo prese il Verona, in B,

con cui debuttò nel 1929-30, e tre anni dopo passava al Padova, per la sua stagione più sfortunata,

otto presenze in tutto e poi convalescenza.

 

Fu Egri Erbstein, futuro mago del Grande Torino, a volerlo a quel punto alla Lucchese. Era il 1934,

due anni dopo esordiva in Nazionale a Berlino, 2-2 con la Germania. Pozzo aveva trovato un degno

successore per il grande Combi, Olivieri fu il portierissimo della vittoria iridata in Francia. Subito

dopo passò al Torino, quattro stagioni per veder nascere la squadra della leggenda e nel 1942

torna in B, al Brescia. Qualche partita nell'Audace di San Michele, nel campionato di guerra 1944, e

poi il ritiro, per avviare una fortunata carriera di allenatore, con Inter e Juventus nel blasone. Morì a

Lido di Camaiore il 5 aprile 2001

 

 

Sventolava nell'aria come un lembo di bandiera.

Un guardiano che c'era e bastava saperlo, agli

avversari, per aver quasi timore di provare a

infrangere quella specie di muro rappresentato dal

fisico imponente, dallo sguardo trasparente e dalla

mascella forte e ossuta, così tedesca da rimandare

nell'immaginario collettivo alla durezza di certe

iconografie che hanno fatto la storia terribile di

questo secolo.

 

Joseph Maier, detto Sepp, è stato il più grande

portiere del calcio tedesco e uno dei più sicuri della

storia del calcio mondiale. Uno scattante custode

capace di subire soltanto 75 reti nelle 95 partite

giocate con la Nazionale. Nacque a Metten, in

Baviera, il 28 febbraio 1944. Portiere lo era già nel

fisico secco e lungo, che gli consentiva da bambino

di primeggiare tra i compagni di giochi. La sua

Zamora_Ricardo.jpg

 

Cosa avrebbe fatto il calcio senza Ricardo

Zamora, detto "El Divino"? Forse avrebbe dovuto

trovarsi un posto qualunque dove sbarcare il

lunario, ritardando il proprio successo universale.

Perché alla leggenda del portiere, così intrinseca

al midollo stesso del gioco, Zamora diede un

impulso decisivo. Era alto, ma non imponente per

il ruolo. Scattava come se il corpo non gli

appartenesse e a lui fosse consentito di lanciarlo

nel vuoto da ogni posizione. L'armonia dei

movimenti si traduceva nel tempismo

dell'intervento e nella quasi soprannaturale

capacità di "leggere" le intenzioni dell'avversario

che fu all'origine del suo soprannome. Si diceva

che l'attaccante fosse costretto a tirare senza

guardare lui, il divino, che altrimenti l'avrebbe

ipnotizzato col suo sguardo magnetico. E

leggendo nell'intenzione sarebbe partito

all'unisono col tiro per bloccare il pallone.

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Shilton_1986.jpg

 

Davanti aveva un bell'esempio, Gordon Banks, e per un po' ne seguì le orme. Quando Banks lasciò il

Leicester per andare allo Stoke City, l'allenatore Matt Gillies non ebbe esitazioni e lanciò Shilton

come titolare.

 

Era nato a Leicester il 18 settembre 1949 e possedeva un fisico possente (1,83 per 86 chili), ma

agilissimo. Formidabili le sue prese alte sui calci d'angolo, eccellente la prontezza di riflessi,

proverbiale il sangue freddo. Completa la sua interpretazione del ruolo, da grande stratega del

reparto difensivo («Si sente un direttore d'orchestra» disse di lui un compagno). Un portiere

abituato a trascorrere ore e ore di straordinari sul campo di allenamento per limare i fondamentali e

curare la preparazione fisica.

 

Ecco un altro dei paradossi di Peter la saracinesca: scorbutico e all'apparenza poco socievole,

abituato a dilapidare le proprie sostanze negli ippodromi di Sua Maestà, diventava risparmiatore fino

alla lesina quando di mezzo c'era il fisico e quindi la possibilità di primeggiare. E se quell'obiettivo di

essere il migliore a ogni costo lo rendeva ispido con compagni e avversari, fuori dal campo la sua

giovialità era nota quanto tendente a superare i confini. Giocò dieci stagioni a Leicester, poi gli arrivò

una ricca offerta dallo Stoke City e accettò. Quattro stagioni senza grandi conquiste prepararono il

periodo d'oro. Nel 1977 approdava a una grande squadra, il Nottingham Forest di Brian Clough,

con cui avrebbe vinto il titolo nazionale, la Coppa di Lega e due Coppe dei Campioni consecutive. La

seconda fu ghermita all'Amburgo in una magica notte in cui Peter Shilton apparve come l'insuperabile

uomo dei prodigi.

 

Dopo cinque anni, complice la disavventura di cui era rimasto vittima (un marito inferocito lo

sorprese in auto con la moglie, lui avviò l'auto e cercando di scappare finì contro un lampione)

passava al Southampton, contribuendo al secondo posto in campionato nel 1984. Tre anni dopo,

eccolo al Derby County e si immaginarono i critici che ormai fosse all'epilogo di una grande carriera.

Peter però non ne ha abbastanza.

La Nazionale è la sua droga. Ha cominciato con Banks come maestro e modello, gli ha fatto da

dodicesimo fino al ritiro del grande guardiano, per poi trovarsi in competizione con Ray Clemence;

ha aspettato che ne tramontasse la stella, mentre lui era sempre lì, con una scattante forza atletica da

far valere su compagni e avversari. Ha giocato tre Mondiali (1982, 1986 e 1990), ha fatto il titolare

per cinque stagioni nel Derby County, poi è sceso al Plymouth Argyle, e poi ancora a Bolton,

Coventry, West Ham United. Fino all'Orient, e a quel record millenario davvero stratosferico.

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PETER SHILTON

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LEV YASHIN

Jashin_Lev.jpg

 

«Guardai Yashin e mi parve di avere di fronte

una figura ingigantita dal colore nero della

maglia, una sorta di mostro che invece di mani

e piedi protendeva tentacoli. Un senso di

soggezione, come un lampo di passaggio, poi il

fischio dell 'arbitro e il tiro, mentre scorgevo

Jascin gettarsi a chiudere la porta sulla destra,

proprio là dove avevo indirizzato la palla... Là

dove luì aveva "voluto " che io tirassi il rigore.

Aveva rimpicciolito la porta, mi aveva

stregato»: così Sandro Mazzola fallì il penalty il 10

novembre 1963, all'Olimpico contro l'Urss,

sbattendo contro la gigantografia del più grande

portiere di tutti i tempi. Era un leone (Lev in russo),

ma lo chiamavano "il Ragno nero" per la divisa

sempre scura e le braccia interminabili, per le

mani a ventosa e le gambe elastiche che facevano

scattare gli 83 chili per 1,88 di altezza del suo

fisico imponente. Sull'avversario a pochi metri era

capace di volare da fermo da una parte all'altra

 

della porta, seguendo l'intuizione e dandole corpo. La sua sagoma minacciosa riusciva a "chiudere" i

pali all'attaccante, impedendogli di farne i punti di riferimento del tiro. Possedeva un innato senso

della posizione e lo sguardo magnetico che imprigionava l'avversario nella tela vischiosa della paura

di sbagliare.

 

Lev Yashin era nato a Mosca il 22 ottobre 1929 e a dodici anni, scoppiata la seconda guerra

mondiale, aveva trovato lavoro in fabbrica come aggiustatore apprendista, quando l'arrivo come

operaio di Vladimir Mihailovic Cecerov, ex atleta costretto al ritiro dall'attività da un grave

infortunio, promosse l'attività sportiva all'interno del complesso. Cosi Yashin divenne portiere, di

calcio e di hockey su ghiaccio. Poi la guerra finì, il leone scelse il pallone di cuoio e si ritrovò alla

Dinamo Mosca. Nel 1953 era titolare in prima squadra, nel 1954 contro l'India esordì in Nazionale,

nel 1956 assurse a fama mondiale vincendo le Olimpiadi di Melbourne. Quattro anni dopo, il

pubblico del Parco dei Principi lo portava in trionfo dopo il successo sulla Jugoslavia nel primo

Europeo per nazioni.

 

Partecipò a quattro Mondiali (dal 1958 al 1970), conquistò cinque titoli nazionali ('54, '55, '57, '59,

'64) e il Pallone d'Oro 1963 (unico portiere della storia). Divenne un eroe popolare in tutto il mondo.

Il 27 maggio 1971 allo stadio Lenin di Mosca difese per l'ultima volta la porta della Dinamo in una

partita contro il Resto del Mondo. Divenne dirigente della Dinamo, ma la vita pretese il conto, con

una emorragia cerebrale nel 1982 e poi la paralisi e l'amputazione della gamba destra. Morì appena

compiuti i 60 anni, per un tumore allo stomaco.

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GIAMPIERO COMBI

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Combi_Giampiero.jpg

 

I compagni di collegio lo avevano

soprannominato "fusetta", petardo, per il suo

spirito pirotecnico, non immaginando di anticipare

le doti esplosive di un portiere tra i massimi della

storia del calcio. Allora, d'altronde, Giampiero

Combi spezzava il primo pane del pallone in piazza

d'Armi a Torino nel Savoia come ala sinistra. Vuole

però la leggenda che fosse sua cura fissare a ogni

gara sul prato i pali della porta, custoditi nel cortile

di casa. E che poi Carlo Bigatto, mediano della

Juventus, gli suggerisse di estendere la vocazione

alla copertura del ruolo.

 

Giampiero Combi, nato nel capoluogo piemontese

il 20 novembre 1902, possedeva un fisico ai limiti

dei canoni del portiere: alto appena 1,71 per 70

chili di peso, compensava con una straordinaria

 

capacità di elevazione e l'istinto al miglior piazzamento tra i pali. Nel 1920 si presentò al talent scout e

giocatore juventino Guido Marchi, che gli concesse un provino, superato a pieni voti. Esordì in prima

squadra il 5 febbraio 1922 a Milano, diventando subito titolare. Il padre possedeva una azienda di

liquori, in cui presto lo stesso giovane Giampiero si impiegò, restando calciatore dilettante. Nel 1926,

tuttavia, l'offerta del padre di trasferirsi in Sudamerica a curare l'esportazione dei prodotti di famiglia

lo fece vacillare. La Juventus scongiurò il pericolo offrendogli un robusto contratto da professionista.

 

Da quel momento, Combi diventò Combi. Un portiere già bravo, che il puntiglio professionale portò

vicino alla perfezione. «Era continuo, costante, regolare» ricordava Vittorio Pozzo «e ammetteva i

suoi difetti, e da essi si curava. Alle Olimpiadi di Amsterdam, nel '28, fu battuto da un paio di

tiri spioventi per la tendenza a piazzarsi un pò avanti, rispetto alla linea della sua porta:

rimuginò, masticò amaro, e nell'errore non ricadde più in seguito». Combi divenne "il" portiere:

nella Juventus e nella Nazionale il suo stile sobrio, tutto basato sul razionale calcolo del piazzamento,

divenne sinonimo di sicurezza a prova di bomba, iscrivendolo nel ristretto circolo dei grandissimi

dell'epoca. Aveva carattere forte, anche coi compagni: «A Viri Rosetta, restio al giuoco di testa»

scrisse Pozzo, «lasciava andare duri cazzotti che il compagno incassava borbottando».

 

Conclusa la sua vita di calciatore, Combi diventò dirigente. Il suo giudizio era competente e

ponderato, fatto di tanto buon senso e tanta esperienza. Mai un apprezzamento azzardato, mai una

valutazione che non fosse ben pensata. Nel consiglio direttivo della Juventus portò la sua saggezza,

la sua onestà. Venne anche chiamato alla direzione della squadra nazionale con Busini e Beretta in un

periodo agitato della vita calcistica. La morte lo coglie nel 1956 mentre cooperava con Umberto

Agnelli a risollevare i destini della Juventus: anche grazie a lui ed ai suoi preziosi servigi, la squadra

bianconera rivedrà, in poco tempo, le stelle.

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JAN JONGBLOED

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Jongbloed3.jpg

 

Jan Jongbloed è stato uno dei più singolari

portieri della storia del calcio. Nato il 25

novembre 1940, è calciatore solo per diporto: nel

DWS e poi nel FC Amsterdam. Ha un unico

momento di effimera gloria: il 26 ottobre 1962

debutta in Nazionale, a Copenaghen, subentrando

a Lagarde a cinque minuti dalla fine. Gli arancioni

perdono 4-1, Jongbloed torna nell'anonimato, da

cui emerge solo dodici anni dopo, quando,

qualche settimana prima del Mondiale 1974, in

un'amichevole con l'Argentina, il Ct olandese

Rinus Michels lo prova e resta a tal punto

soddisfatto da promuoverlo titolare, davanti a

Schrijvers del Twente e Treytel del Feyenoord.

Una sorpresa per tutti. Si scopre che la sua

passione primaria è la pesca, poi viene il calcio, e

che integra il contratto da semiprofessionista

gestendo una tabaccherìa di Amsterdam.

 

Ha colpito Michels la sua singolare abitudine a

giostrare fuori dalla porta, grazie alla disinvoltura

del tocco di palla coi piedi. E siccome dopo la

 

rinuncia di Hulshoff il grande barbuto dell'Ajax, e l'indisponibilità di Mansveld e Drost il Ct ha deciso

di arretrare a pilota della difesa Arie Haan, centrocampista di molo, gli viene comodo un portiere

capace in pratica di fare il libero, a costo di rischiare brutte figure. Ai Mondiali qualcuno ride, per i

suoi talora goffi recuperi. Ma alla resa dei conti Jongbloed subisce in tutta la manifestazione solo tre

gol, un'autorete di Krol contro la Bulgaria e i due contro la Germania in finale, il primo dei quali su

rigore di Breitner. Molti lo snobbano, qualcuno lo esalta, e al termine del Mondiale il vicecampione

del mondo Jongbloed decide di fare davvero il calciatore. Passa al Roda, allunga i tempi di

allenamento trascurando la tabaccherIa.

 

Conquista così un altro Mondiale e gioca la sua seconda finale, a 38 anni, perdendo contro

l'Argentina. La sua carriera è ben lungi dall'essere chiusa. Batte il record di presenze nella massima

serie olandese, ma quando sta per toccare i 45 anni viene fermato dalla sfortuna: nel settembre del

1985, durante un allenamento con la sua squadra, il Go Ahead Eagles, il "portiere volante" viene

colpito da infarto. Supera la crisi, ma deve smettere di giocare. La sfortuna aveva già colpito il

portierone olandese: un anno prima, nel 1984, suo figlio ventenne, calciatore lui pure, era stato ucciso

da un fulmine durante una partita.

 

Non è stato un grandissimo portiere, d'accordo, ma a modo suo Jan Jongbloed, tabaccaio part-

time, comunista, amante della birra, delle sigarette e del gentil sesso, portiere che parava a mani

nude perché i guanti, a suo dire, non gli permettevano di bloccare bene la palla e che finì per

disputare, quasi per caso, due finali mondiali, ha segnato un'epoca e sarà sempre ricordato da tutti

gli amanti del calcio con quella maglia giallo numero 8 invece che con il classico numero 1, a

sottolineare l'intercambiabilità e la volontà di svincolarsi dai ruoli classici.

 

La vita, un uomo come Shilton, si può dire

l'abbia passata in volo. Da un palo all'altro

dell'esistenza, sempre sospeso qualche spanna al

di sopra della normalità, sempre col puntiglio

della perfezione a strizzare l'occhio come una

luna capricciosa. Non si può dire che si sia

risparmiato, eppure è riuscito a spremere dalla

propria carriera agonistica quanto nessun altro

portiere. Detiene il record inglese di presenze in

Nazionale (125) e il 22 dicembre 1996, a 47 anni,

raggiungeva le 1.000 presenze nella Lega inglese;

quel giorno la sua squadra, il Leyton Orient di

terza divisione, battè per 2-0 il Brighton. La sua

vita sul trapezio l'aveva spesa anche a sperperare

i tanti denari guadagnati, facendoli brucare a

cavalli da corsa e relativi allibratori.

 

Peter Shilton, d'altronde, non ha mai amato le

mezze misure. Sempre, dal primo giorno in cui è

entrato in un club di calcio professionistico, nel

settembre 1966 nel Leicester a diciassette anni,

non ha avuto che una meta: diventare il migliore.

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È quasi una beffa che la palma del miglior

estremo difensore di ogni tempo tocchi in Italia a

un signore che ha faticato tutta la carriera per

spiegare che i portieri possono anche non essere

matti, ma ticchettare come perfetti marchingegni

meccanici. Zoff è stato il più grande fin, si può

dire, dal cognome tronco che pare già in volo a

parare un destino importante. Fin da quando

buscò cinque gol dalla Fiorentina all'esordio in A

e non era che un ragazzo che andava al campo

con la corriera, il ragazzo contadino che lavorava

come motorista in un'officina e amava il pallone

ma anche l'odore di grasso e benzina emanati dai

motori bisognosi di una mano amica. Tutta

l'eccezionalità della sua carriera si condensa

nell'esercizio ostinato della normalità.

 

Niente voli angelici e spettacolari, niente uscite a

sfracellarsi su un emozione, ma soltanto lo stretto

indispensabile e quel fisico curato con l'amore di

Zoff_1983.jpg

 

un meccanico per la sua creatura. La normalità Dino Zoff la portava raccontata in volto da un solco

di riserbo, sempre in bilico tra la malinconia e un sorso di fatica, il mestiere di portiere costruito nelle

interminabili sedute extra di allenamento, per rendere normale anche la parata più difficile, il volo più

arduo. Così è impossibile ricordare un lampo tra i pali, una scheggia che vola impazzita dalle sue

memorie per consegnarsi come la più grande delle sue parate. Mentre è normale ricordare i suoi

primati. Dal 1972 al ritiro, 332 presenze consecutive in A, 2 nel Napoli e 330 nella Juve, tutti gli 11

campionati in bianconero giocati senza interruzioni.

 

Per 21 anni restarono primato assoluto anche i 903 minuti di imbattibilità, dal 3 dicembre 1972 al 18

febbraio 1973, poi superati da Seb Rossi. E valgono ancora il record di imbattibilità in Nazionale,

1.144 minuti, dal 1972 al 1974; e quello in Coppa dei Campioni, 399 minuti nel 1972-73. Tuttora

insuperato pure il numero di partite in A: 570 (cui vanno aggiunte le 74 in B, le 110 in Coppa Italia e le

87 nelle Coppe internazionali). E ancora, le 110 partite in Nazionale. Dal 24 settembre 1961,

Fiorentina-Udinese 5-2, al 15 maggio 1983, Juventus-Genoa 4-2, è racchiusa una serie infinita di

successi: con la Nazionale, un titolo di Campione del Mondo e uno di Campione d'Europa. Con la

Juventus, 6 scudetti, una Coppa Uefa e 2 Coppe Italia. Dino Zoff nasce a Mariano del Friuli (Gorizia) il

28 febbraio 1942.

 

Comincia nell'Udinese, dove a onta di una profezia avventata dell'allenatore Eliani («Senti Zoff se te

diventi un jogador, me tajo i cojoni») e del debutto disastroso («Per anni molti mi salutarono

con la mano aperta, a indicare i cinque gol subiti»), si rivela presto un campione in erba.

Stravedono per lui il presidente Bruseschi e l'allenatore Bonizzoni. Nel 1963 quest'ultimo lo vuole al

Mantova, dove gioca fino al 1967, quando il Milan di Luigi Carraro arriva a un passo dall'acquisto,

poi se lo fa soffiare dal Napoli. Nel 1968 esordisce in Nazionale, vincendo il titolo continentale. Nel

1972 è alla Juve di Boniperti per la lunga cavalcata destinata a interrompersi solo sulla sconfitta in

Coppa dei Campioni contro l'Amburgo. Quando il Monumento (finito sulla copertina di Newsweek e

sul francobollo disegnato da Guttuso per aver vinto il Mondiale a 40 anni), decide di lasciare,

diventando allenatore e dirigente di successo.

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DINO ZOFF

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RINAT DASAEV

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Musulmano di Astrachan, città nei pressi del

Mar Caspio distante circa 1300 chilometri da

Mosca, Rinat Dasaev è sempre stato costretto a

nascondere la propria fede. L’ha sepolta sotto

centinaia di parate, l’ha celata dietro uno stile in

cui mescolavano alla perfezione atletismo e

tecnica, l’ha occultata all’interno dell’immagine di

erede della leggenda sovietica Lev Jašin.

Sarebbe stato imbarazzante per il Partito sapere

(e soprattutto far sapere) che era un credente e

un praticante l’uomo che difendeva i pali dello

Spartak Mosca (cinque titoli nazionali) e

dell’URSS, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di

Mosca del 1980, il frutto migliore della

generazione d’oro targata Valeri Lobanovski,

colui che nella finale dell’Europeo ’88 si sarebbe

piegato solo di fronte a una meraviglia di Marco

van Basten. Poi, quando tutto stava crollando,

Dasaev se n’è andato a monetizzare gli ultimi

scampoli di carriera al Siviglia, senza però

ambientarsi; allora è tornato a casa, libero

finalmente di non doversi nascondere più.

dasaev-415.jpg

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JEAN-MARIE PFAFF

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Carismatico, bizzarro, geniale, ma contestualmente

freddo come un punteruolo di ghiaccio una volta

infilati i guantoni; in poche parole le due facce di

Jean-Marie Pfaff, immagine pubblica da clown,

professionista esemplare sul terreno di gioco. Da

zero a mito, dalla roulotte parcheggiata ai lati della

piazza principale di Anversa (dimora della sua

famiglia, venditori itineranti di professione) ai fasti

della nazionale. Finale dell’Europeo 1980, quarto

posto a Mexico '86 dopo prestazioni da leggenda

contro URSS (4-3 agli ottavi) e Spagna (eliminata ai

rigori nei quarti). Il miglior Belgio di sempre grazie

al più forte numero uno della sua storia.

Insuperabile nelle giornate più ispirate, incubo

ricorrente dei rigoristi e della lingua tedesca,

maltrattata a più riprese con una sorta di miscuglio

fiammingo-germanico entrato nella storia sportiva

e di costume del paese. Tre campionati e due

Coppe di Germania con il Bayern Monaco, un

titolo e una coppa nazionale con il Beveren,

provinciale belga da cui tutto ha avuto inizio. Lo

chiamavano "fatty", giocava in porta perché non

c'era altro posto dove mettere quel ragazzino

discretamente sovrappeso.

Pfaff_JeanMarie_3.jpg

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FRANTISEK PLANICKA

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Il Gatto di Praga, trofei a go-go in patria (otto

titoli nazionali, sei coppe), una finale Mondiale

persa di fronte a un altro fuoriclasse dell’epoca, il

numero uno degli Azzurri Giampiero Combi, un

acuto europeo (la Mitropa Cup nel 1938), una

sportività pari solo alla classe mostrata tra i pali

della porta. Per passare il turno ai Mondiali del

’38 i brasiliani dovettero rompergli un braccio; lui

rimase in campo per 120 minuti mantenendo l’1-1,

poi non poté scendere in campo nella ripetizione.

A Torino invece i tifosi della Juventus lo colpirono

con una pietra; lo Slavia Praga si ritirò per

protesta e fu squalificato. Aveva vinto l’andata (si

giocava la semifinale della Mitropa Cup anno

1932) 4-0.

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PETER SCHMEICHEL

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Segni particolari: assoluta mancanza di modestia.

Ma questo figlio di un pianista jazz polacco e di

un’infermiera danese se lo è sempre potuto

permettere grazie al suo smisurato talento.

Nessuna paura, mai. A 21 anni, giovane

emergente con la maglia del Hvidovre

Køpenaghen, dichiara pubblicamente che Ole

Qvist, all’epoca considerato il più forte portiere

danese, gli è inferiore di un’abbondante spanna.

Nella stagione 90/91 porta il Brøndby fino alle

semifinali di Coppa Uefa. Nel 92/93 festeggia 22

partite di Premier League concluse con la porta

inviolata e soprattutto un titolo nazionale che in

casa Manchester United mancava da 26 anni.

Seguiranno altri quattro scudetti (più un altro in

Portogallo a fine carriera con lo Sporting

Lisbona), tre FA Cup, una Coppa Campioni e una

Supercoppa Europea. Ciliegina sulla torta, il

sorprendente Europeo vinto nel ’92 con la

Danimarca, nazionale con la quale vanta 129

presenze e un gol all’attivo, segnato nel 2000 al

Belgio su rigore.

schmeichel2.jpg

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JAN TOMASZEWSKI

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Maglia gialla, calzoncini rossi, calzettoni bianchi,

capelli lunghi e arruffati. Un clown, secondo il ct

dell’Inghilterra Ramsey alla vigilia di Inghilterra-

Polonia, 17 ottobre 1973, incontro di qualificazione

per i Mondiali del ’74 che i britannici dovevano

assolutamente vincere. Un giocatore con poca

personalità a detta del Legia Varsavia, massimo

club nazionale, che lo aveva ceduto senza alcuna

remora al piccolo LKS Lodz. Un portiere poco

affidabile, commentava la stampa polacca, che due

anni prima aveva esordito in nazionale, Polonia-

Germania Ovest 1-3, a suon di papere. La vittima

perfetta, insomma. Non quel giorno però, e non in

quello stadio, il mitico Wembley. La partita finisce

1-1, Jan Tomaszewski annienta giudizi e

pregiudizi, oltre che le speranze dell’Inghilterra

intera, con una dozzina di super-interventi. La

Polonia va ai Mondiali, dove arriverà terza, con il

nostro capace di parare due rigori in due diversi

incontri. Medaglia d’argento nel ’76 alle Olimpiadi

di Montreal, il regime comunista polacco gli

permetterà di lasciare la Polonia solo dopo i 30

anni, per un più remunerativo finale di carriera in

Belgio e in Spagna.

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MICHEL PREUD'HOMME

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Dicono che in carriera abbia vinto poco. Vero, ma

lo ha fatto con la maglia del Malines, il piccolo

club fiammingo capace di arrivare sul gradino più

alto del campionato belga e dell’Europa minore,

leggi la Coppa delle Coppe e la Supercoppa

Europea. In Coppa Campioni si fermarono invece

ai quarti di finale contro il Milan di Marco van

Basten, che però ci mise 120 minuti per far

crollare il muro eretto dal numero uno vallone,

mostruoso per riflessi e senso della posizione tra i

pali. Un miracolo, quello del Malines, ancora oggi

nel cuore dei nostalgici degli anni Ottanta.

Poi tanta nazionale belga (miglior portiere a Usa

'94) e numerose stagioni al Benfica, ma la

bacheca rimane vuota (escludendo i successi di

inizio carriera con lo Standard Liegi). Un peccato

mortale per la gretta accolita del "cos'ha vinto?

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.faticaccia .faticaccia .faticaccia - Alla fine .. ce l'ho fatta ! Ciao Laudrup ! :) Stefano !

Ciao Stefano!

Che ne pensi di duckadam? quello che parò 4 rigori nella finale di coppa campioni contro il barcellona..

E di tacconi? io penso che quel 29 maggio fece la più grande partita della sua carriera, prese qualsiasi cosa!

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Grande Dino..l'unico rimpianto e la finale dell europeo persa x colpa di adp..secondo me lo ammazzerebbe..grande uomo e capitano..

 

 

No ascolta, questa balla della "finale dell'Europeo 2000 persa per colpa di Del Piero" è una cosa che non tollero neanche dagli interisti, figuriamoci da uno juventino.

 

Del Piero sbagliò UN gol clamoroso, quello di piatto interno, mentre il pallone che gli capitó sul sinistro non era per nulla facile. Può capitare di sbagliare un gol.

 

Perdemmo quella finale perché, come disse Brignano...."Noi italiani siamo maestri nel perdere tempo...oh, non siamo stati in grado di perdere 20 FOTTUTI SECONDI in quel finale di recupero".

 

La difesa si fece uccellare alla grande,con due o tre errori in sequenza.

 

Punto.

 

Altro che Del Piero.

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Ciao Stefano!

Che ne pensi di duckadam? quello che parò 4 rigori nella finale di coppa campioni contro il barcellona..

E di tacconi? io penso che quel 29 maggio fece la più grande partita della sua carriera, prese qualsiasi cosa!

 

uum Duckadam ? Caro Amico , sinceramente , un'opinione più o meno " precisa e ponderata " riguardo l'ex N°1 della

STEAUA BUCAREST non ce l'ho ! Certo , l'episodio da te citato , è entrato a pieno titolo tra gli " eventi calcistici " e che

rimangono indelebilmente impressi nella mente di tutti coloro che hanno a cuore le vicissitudini calcistiche a 360° che

esulano dalla nostra passione per un Club in particolare !

 

In effetti , ciò che accadde in quell'occasione fu doppiamente clamoroso : oltre alla " fantasmagorica " serie di rigori che

decise l'assegnazione della Coppa , va anche rammentato che , alla vigilia , nessuno avrebbe scommesso " 1 LEU "

( la valuta Romena ) sulla STEAUA ... tanto e tale era il divario tra le 2 squadre .. ed invece .... !

CROCE e DELIZIA del ,per dirla alla Silvio , GIUOCO DEL CALCIO ! .ghgh

 

Purtroppo , la Vita , a tutti noi , nessuno escluso , dispensa , più o meno equamente ... " ROSE e SPINE " !

Sebbene all'epoca il portiere Romeno avesse ( se non erro ) 26/27 anni , la sua carriera , in pratica terminò in quella che

per lui fu una memorabile serata !

 

Due sono le versioni , " Ufficiali e/o Ufficiose ", che le " Cronache " di quel periodo, narrano essere state le cause del suo

" precoce declino " proprio quando era sulla " rampa di lancio " per poter dare il meglio di sè :

 

A) - la prima - : Una grave ed improvvisa malattia che gli limitò assai la funzionalità di una mano ...

 

B) - la seconda - : IL REAL MADRID gli regalò una stupenda auto in segno di " Ricompensa e Gratitudine " perchè ,

grazie alla sua impresa , gli Odiati ed Atavici Rivali erano stati sconfitti ! Si narra che , un figlio dell'allora Dittatore

CEAUSESCU , gli " consigliò " di donargli quella autovettura ! Duckadam si rifiutò ed alcuni " Amici " del " Delfino Romeno " ,

appositamente assoldati , provvidero a " Ripulire l' Onta del Gran Rifiuto " ... massacrandogli una mano !

 

 

- Riguardo a Tacconi , uum che dire ? Un Grande .. ma non un .. Grandissimo .. limitato , forse , nella sue reali potenzialità ,

da atteggiamenti caratteriali non sempre in linea con i " dettami ed il decalogo " dell' Irreprensibile Professionista Calcistico e ,

nello specifico , quello di " Guardiano " di uno dei Club più prestigiosi al mondo !

 

-Alternò periodi di " Grande Spolvero " ad altri di " Apatia e Scarsa Concentrazione " : eppure , Stefano , aveva tutto , ma proprio

tutto per entrare a far parte del " GOTHA " dei Nostri " Numeri 1 " : insomma ... un po' genio ed un po' sregolatezza ...

caratteristica , tra l'altro , assai comune a molti " Goalkeeper " specie in quelli di una volta !

 

-Buona Notte ! :) Ciao ! Stefano !

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Stefano, ma sempre parlando di Tacconi, nei quarti di finale di coppa campioni 85 con lo sparta e in semifinale con il Bordeaux, perche gioco Bodini (tra l'altro egregiamente) ? Tacconi ebbe problemi con Trapattoni? Grazie amico :)

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Stefano, ma sempre parlando di Tacconi, nei quarti di finale di coppa campioni 85 con lo sparta e in semifinale con il Bordeaux, perche gioco Bodini (tra l'altro egregiamente) ? Tacconi ebbe problemi con Trapattoni? Grazie amico :)

 

DA : " IL PALLONE RACCONTA " - QUI C'E' TUTTO .. STEFANO TACCONI .. NEL SUO ( come ho già scritto e ribadisco ) " GENIO e SREGOLATEZZA ! " -

 

Pregi e difetti : Stile di vita spesso " Alternativo " ... ed ... " Irrequieto " ma anche , cosa assai rara in generale , aveva in dote un modo di proporsi sincero e diretto che , spesso , troppo spesso , non era accompagnato ed anzi , entrava in conflitto , con quel minimo di diplomazia

che " bon ton " e " prudenza " avrebbero imposto !

 

Egli , gli va riconosciuto , seppur a modo suo , ha amato ed ama la JUVE ( 2006 Docet ) , certo è che , anche per la Nostra Società la gestione dell'UOMO ,ancor prima dell'atleta , non dev'essere stata una " Passeggiata " !

 

Una nota di demerito anche per il Buon TRAP : la difesa della Nostra porta nella Finale di BRUXELLES ... DOVEVA ASSOLUTAMENTE DOVEVA ...

ESSERE AFFIDATA A BODINI ... VERO ED INDISCUSSO EROE IN SEMIFINALE NELLA DOPPIA SFIDA CON IL BORDEAUX !

Il Nostro ex allenatore , inspiegabilmente , peccò di Ingratitudine nei confronti di BODINI che aveva ampiamente dimostrato con i fatti di

meritarsi quella Finale ! :) Ciao ! Stefano !

 

Al punto che, declinando la lunghissima parabola stellare di Zoff, la Juve sceglie lui per perpetuare la specie dei grandi portieri. Una scelta ponderata a lungo, valutata sul rendimento del ragazzo nell’ultimo triennio. Una decisione rischiosa, perché, dopo undici stagioni con un monumento al ruolo come Super Dino, affidarsi ad un giovanotto che non vanta trascorsi ad alto livello in grossi club può sembrare una scommessa.

Prendere il posto di Zoff era un compito che avrebbe distrutto chiunque , ma non il portiere perugino il quale non manifesta il minimo turbamento, ostentando sempre tanta sicurezza. Si allena con la stessa spregiudicatezza con cui si muoveva nell’Avellino e non dimostra alcun condizionamento nei confronti di un ambiente che rappresenta il sogno di ogni calciatore italiano: «Ad Avellino dovevo fare anche da libero, figuriamoci se mi spavento per il fatto di giocare in una squadra come la Juventus che al portiere è in grado di assicurare adeguata protezione. Non mi spaventa nemmeno il paragone con Dino. Io sono Tacconi ed a Zoff guardo come al maestro».

Ma il ragazzo, oltre che bravo, è indubbiamente fortunato. Il suo arrivo sotto la Mole coincide con la messa in pista di una delle più solide versioni della Juve “trapattoniana”: confermato lo squadrone sfortunato l’anno prima, sono arrivati ritocchi di sostanza, uno dei quali, la mezzala Vignola, dallo stesso Avellino da cui proviene il portiere. La difesa destinata a proteggere Tacconi è quanto di meglio al mondo sia stato assemblato negli ultimi anni, da Gentile a Cabrini, da Brio a Scirea.

Si può temere qualcosa, con tanti pezzi da novanta a dare una mano? In effetti, non trema Tacconi e soprattutto non tremano i campioni bianconeri che di Tacconi cominciano presto a fidarsi. La Juve parte col botto, in tre giorni segna 14 reti e ne subisce zero, è record mondiale o giù di lì. Avanti in campionato, avanti in Coppa delle Coppe, Tacconi che pure ha nell’esperto Bodini un rivale accreditatissimo è il titolare indiscusso e da alla retroguardia una sicurezza insperata. Non solo, con un carattere da simpatico guascone è tra quelli che più si danno da fare per incitare i compagni nei momenti difficili.

Così facendo, nell’anno dell’esordio, mette insieme 23 presenze in campionato ed una decina in Coppa delle Coppe e, quel che più conta, da un contributo decisivo alla conquista di entrambi i trofei. Bravo e fortunato, si diceva. Un inizio così alla Juve l’hanno avuto in pochi.

L’anno dopo, con l’arrivo dell’amico ed ex compagno di Avellino Luciano Favero, ci sono le condizioni per ripetersi.. Ma stavolta la sorte è meno benigna e cominciano i problemi; dopo un clamoroso 0-4 rimediato a San Siro contro l’Inter ed il derby perduto nella domenica successiva, complice un suo errore in uscita, Tacconi viene sostituito da Bodini e l’imprevedibile portiere perugino non accetta la panchina, con furiose polemiche che non possono sicuramente essere tollerate dall’ambiente juventino. Fioccano le multe e trascorre parecchio tempo prima che Tacconi si rassegni alla panchina che sarebbe durata per lunghi mesi.

«Tacconi sfida la Juventus!», «Tacconi ha aperto il fuoco!», «Clamorosa polemica alla Juventus!». I giornali vanno a nozze, approfittando curiosi di queste polemiche poco abituali per l’ambiente juventino.

«Una volta i giocatori parlavano poco, forse avevano anche paura», dice il giocatore, «ma con la Legge 91 hanno acquisito la possibilità di andare dove vogliono e le società hanno inevitabilmente minor potere su di loro. Quell’esperienza che ho vissuto mi ha fatto capire che avevo commesso alcuni errori. Il tempo tuttavia ha dimostrato che non avevo parlato completamente a vanvera».

Bodini si dimostra un ottimo portiere e Tacconi soffre parecchio: rientra in squadra sul finire della stagione È pronto per la finale di Bruxelles, ma se la sentirà il Trap di rischiare? Tacconi lo rassicura: «Mister sono pronto, è la mia grande occasione».

Il Trap a questo punto si fida. E fa bene. Tacconi è grande nella notte di tregenda, la Juve issa in spalla la prima Coppa Campioni anche grazie alle sue strepitose parate. Il grande slam del portiere perugino si chiude di lì a qualche mese.

Tokyo, 8 dicembre 1985, finale di Coppa Intercontinentale. L’apoteosi per la Juve “trapattoniana”, il trionfo personale per il portiere erede di Zoff. Cosa c’è di più esaltante per un portiere che ergersi a baluardo, essere l’artefice unico di un successo, insomma parare un rigore, anzi due, anzi tre?

La coppa lottata e sofferta è aggiudicata ai penalty e qui Tacconi si esalta. La sua espressione dopo l’ultima decisiva parata è nella storia televisiva e fotografica del calcio. Pugni al cielo, ghigno di chi è arrivato dove nessuno avrebbe mai detto, insomma gioia incontenibile. Che è poi la gioia di milioni di juventini che hanno messo la sveglia nel cuore della notte per non perdersi l’evento in TV.

Tacconi, di qui in avanti, è un mito dei fans, un uomo simbolo. La Juve dei ciclo “trapattoniano” non è più la stessa, lasciano campionissimi ed arrivano giocatori normali, non si può sempre vincere. Tacconi è la continuità tra quella Juve trionfante e questa che la sfanga senza infamia e con poche lodi.

Passa il biennio di Marchesi, la nota lieta per Tacconi è il suo ingresso, in punta di piedi, nel giro della Nazionale. Da riserva di Zenga, si capisce, ma è sempre meglio di nulla. Poi, alla Juve, arriva Zoff ed è di nuovo tempo di vittorie. Tacconi non salta più una partita che è una, è sempre più il simbolo di una Juve che prova a vincere qualcosa e, nella stagione 1989/90, da un contributo decisivo ad un’altra doppia conquista, Coppa Italia e Coppa Uefa. Nella finale europea con la Fiorentina, sul neutro della sua Avellino, gioca un’altra partita da incorniciare, degna premessa al posto in Nazionale al Mundial italiano di un mese dopo. Poi, nel 1992, l’arrivo di Peruzzi è il segnale che la lunga avventura è agli sgoccioli.

Lascia un ricordo indelebile e un curriculum da grande, uno dei più grandi nella storia del ruolo in maglia juventina: 402 partite, di cui 56 nelle coppe europee, con due scudetti, il tris delle coppe europee (una Uefa, una Campioni ed una Coppe) e quella Intercontinentale del 1985 che è più sua che di chiunque altro.

 

ANGELO CAROLI, “HURRÀ JUVENTUS” GENNAIO 1984:

Poteva diventare cuoco e preparare spaghetti all’amatriciana e polenta con spezzatino; invece è finito fra due pali, a vivere in solitudine l’arte acrobatica del portiere. La storia di Stefano Tacconi è singolare, quasi una fiaba, dove tutto diventa incantesimo ed è appeso al sottile filo dei sogni e dove un bambino fragile si trasforma in principe.

Figlio di operai (Arsenio e Giannina) di un lanificio di Ponte Felcino (piccolo paese umbro dove Stefano è nato ventisei anni fa), Tacconi viene dalla gavetta; e nasce portiere per caso, quando i fratelli maggiori Giuseppe e Piero, che credono di saperla lunga soltanto perché fanno il mestiere del centrocampista, lo obbligano a stare in mezzo a una porta, un ruolo che ogni bambino rifiuta categoricamente. Ma Stefano è docile e si adatta. Il tempo lo ripagherà con grossi interessi.

Le prime esperienze calcistiche le affronta a sedici anni, nella squadretta del suo paese; poi si trasferisce a Spoleto, lusingato da un osservatore che gli aveva riconosciuto buone doti atletiche. magro come un grissino, ma la voglia di imparare non gli manca. E sogna, proprio come nelle favole. Il giovane Tacconi deve però dedicarsi anche agli studi. Perciò, dopo aver superato l’esame di terza media, si iscrive presso l’Istituto alberghiero fra polli allo spiedo ed anatre all’arancia.

Ma siccome lui pensa che è meglio un portiere oggi che un cuoco domani, mette la vita dentro a un pallone, che continua ad afferrare con mani diventate sempre più forti e sicure. Gioca nello Spoleto con buoni risultati; poi un giorno compaiono Brighenti e Manni (osservatore e generai manager dell’Inter del 1975/76) per vedere all’opera un giovanotto di nome Roselli. Però piace anche Stefano ed il doppio affare è concluso.

L’Inter lo affida a Venturi ed a Giancarlo Cella: l’angelo di Ponte Felcino sta per spiccare il volo. Quattrini pochi, ma gloria abbastanza (tornei Primavera e Berretti e Coppa Italia). E rispedito successivamente a Spoleto, poi è mandato a Busto Arsizio (Pro Patria) per via del servizio militare, dal povero Barison. Tacconi si rompe infatti il braccio destro (l’ulna) in uno scontro con Vendrame. Sette mesi d’inattività, poi la ripresa, lenta ma sicura.

Soltanto a Livorno, in C1 ed alle dipendenze di Burgnich, conosce il calcio a livello semiprofessionistico. Fa parte anche della Nazionale di Serie C che sconfigge, a Londra, l’omologa scozzese. Ma a San Benedetto, altro ambiente caloroso e tranquillo, spicca il volo deciso. Fino ad arrivare all’Avellino dove gioca per tre anni, a livelli ottimi. La favola subisce bellissime trasformazioni. La realtà è accarezzata e non sembra più una montagna grande e difficile da scalare.

La Juventus lo mette sotto il proprio obiettivo, ne fiuta le grosse capacità e lo porta nella metropoli torinese. Però c’è un’ombra davanti a Tacconi: l’eredità di Zoff. Poi, in alcuni tifosi c’è diffidenza, in altri perplessità. Stefano è però un ragazzo intelligente: mette in un angolo certi aspetti istintivi del carattere e comincia a meditare, aspettando sulla sponda del fiume. Parla sempre poco e para tanto. Dopo un paio di incertezze nell’afosa notte di Casale (amichevole), il nuovo portiere juventino tira fuori una grossa personalità e notevoli doti tecnico/atletiche.

Inutile ricordare le parate di Danzica o di Parigi, del derby o di quelle effettuate contro il Verona: le pagelle gli danno sempre ottimi voti, e lui oggi non è più osservato come scolaretto timido, ma come degnissimo successore di Zoff. Ed amato e stimato da tutti i tifosi; e lui ci tiene a ringraziarli. Come ringrazia i compagni di squadra (Zoff fra i primi), dirigenti e tecnici per avergli favorito l’ambientamento. Si accorge che vive giorni autentici però gli piace ancora aggrapparsi alla fantasia, per sognare altri traguardi che per ora non osa rivelare (scudetto, Coppa delle Coppe e la Nazionale). Sorride e si nasconde dietro a questa breve frase: «Ho solo ventisei anni».

Sulle difficoltà iniziali quasi sorvola: «Non era timore il mio, solo che venivo dalla provincia e pensavo di incontrare grossi ostacoli. Era soltanto questione di convincermi di poter fare il mio dovere. Sono venuto a Torino sapendo che se sbagliavo mi si chiudeva una porta d’oro. Ed ora amo tutto di questa Juve, dalla società, ai tifosi, ai compagni di squadra».

Ragazzo simpatico ed estroverso, ha l’aria del cucciolo che sa difendersi bene. Ama i motori e la musica. Ad Avellino, insieme con Juary, conduceva una trasmissione di disco-music per una televisione privata. Come atleta i tifosi lo conoscono già: ha doti eccezionali, che vanno soltanto un po’ disciplinate. La porta bianconera, insomma, è in mani sicure. E il sogno/realtà di Stefano Tacconi è appena cominciato.

 

VLADIMIRO CAMINITI:

Stefano Tacconi appartiene, per il carattere e la natura di forte idealista, alla schiatta dei frati giocondi che peroravano, nell’Umbria del 1200 sempre aprica e risparmiosa, il verbo della pudicizia. Dotati di favella gloriosa, costoro, scalzi, coperti da un saio, viaggiavano il mondo a dorso di faceti asinelli, e peroravano.

Acclarata che è questa la natura di Tacconi, veniamo al portiere, e qui appare tutto evidente: più potente che agile, è però un autentico drago per la capacità di vivere il match nel suo cuore nobile; quasi imbattibile tra i pali quando è in forma, recupera doti di estemporanea efficacia nelle uscite frontali, mentre sui palloni che provengono dall’out rinunzia a priori, fidandosi, spesso a torto, dei colleghi difensori che subito rampogna aspramente.

Tacconi è un grande, acrobatico portiere nel senso lato dell’espressione, soprattutto quando la sfida si infiamma; nei confronti europei è risultato spesso decisivo dall’alto di una forza e furia atletica prestigiosa, con quel suo stile un tantino gradasso o spaccone pure nel baffo, i crudeli occhi cerulei ironici, che me lo hanno fatto soprannominare Capitan Fracassa.

Tacconi fa della porta il suo regno: essa è l’espressione del suo talento spettacolare e spericolato, uomo vero nella sfida pericolosa del calcio ama il più difficile, il sempre più difficile. E dopo la tragedia dello stadio Heysel, ha maturato un gusto amaro e sarcastico dell’ambiente in cui vive.

 

NICOLA CALZARETTA, “HURRÀ JUVENTUS” OTTOBRE 2011:

Stefano Tacconi. Fisico esplosivo, i centimetri giusti per un portiere che deve dominare la sua area. Porta i baffi, sotto una cesta di riccioli biondastri. Lingua tagliente e ben affilata, ma questo si saprà poi. Ha già alle spalle una buona gavetta quando arriva alla Juventus, estate 1983. Eppure per lui la giostra aveva previsto un altro percorso. Quando ancora non ha la patente, lo adocchia l’Inter che lo testa facendolo viaggiare tra Spoleto, Busto Arsizio, Livorno e San Benedetto del Tronto. La tappa marchigiana è fondamentale. Perché gioca titolare in Serie B a ventidue anni e, soprattutto, perché lo allena maestro Piero Persico, un grande del settore. La giostra, inaspettatamente, si ferma. L’Inter lo molla. Ma lui non molla, anzi. Va ad Avellino, Serie A. Motivato e sicuro di sé. Sono tre campionati senza stop. 90 partite tutte d’un fiato. Tacconi c’è. Il clima del Partenio e le stagioni a lottare per salvezza lo hanno temprato. Ma quando arriva la chiamata della Juve per sostituire il mito Zoff, qualcuno storce il naso: «È normale», spiega. «Fino ad allora avevo giocato in provincia».

Invece dal cilindro di Boniperti spunta, a sorpresa, il tuo nome: «Ricordo che, però, già verso dicembre gennaio cominciò a trapelare la notizia dell’interessamento della Juve nei miei confronti, quando Zoff ancora non aveva annunciato il ritiro».

Tu a questa notizia come reagisti? «A modo mio».

Cioè? «Dissi: “O io o lui”. Io la riserva non l’avrei fatta a nessuno».

Non hai avuto paura con quella sparata di esserti giocato la possibilità di andare alla Juve? «L’incoscienza ha sempre fatto parte del mio carattere. Sentivo di dover dire quelle cose e le ho dette. E sono convinto che i motivi per cui mi hanno scelto, c’è anche questo, la mia spavalderia».

Quando hai saputo che i giochi erano fatti? «Ad aprile. Me ne accorsi perché tutti temevano che mi facessi male! Comunque finché non ho firmato non sono stato tranquillo. Mi volevano anche il Napoli e la Roma con la quale l’Avellino aveva già fatto un pre-contratto senza che io sapessi nulla».

Arrivavi a Torino, dove però c’era un Bodini che scalpitava: «Lui aveva chiuso benissimo la stagione precedente, aveva vinto la Coppa Italia. Ma io ero sicuro di me. Avevo ventisei anni, l’età giusta. Mi ero fatto una bella esperienza. E poi se mi avevano comprato voleva dire che puntavano su di me. O no?»

E difatti l’11 settembre 1983 debutti in campionato con la maglia di Zoff: «Avevo già fatto la Coppa Italia, ma l’esordio al Comunale in campionato ha avuto tutto un altro sapore».

Sensazioni? «Un po’ di emozione c’era. Lo stadio era pieno, c’erano molte aspettative. Nell’aria sentivo ancora un po’ di scetticismo verso di me. In fondo dovevo dimostrare che quella maglia potevo meritarmela. È andata bene».

Direi benissimo, hai anche parato un rigore: «Onestamente l’Ascoli non fu un grande avversario: quel giorno vincemmo 7-0. E poi, con quella gente che stava davanti a me, mi sentivo molto tranquillo. Il rigore è stata la ciliegina sulla torta, fra l’altro De Vecchi non lo conoscevo proprio come rigorista».

Superata la prova del fuoco? «Mancava solo la Coppa delle Coppe che giocammo il mercoledì successivo. Anche li vincemmo 7-0. Se non altro portavo fortuna! Alla fine dell’anno vincemmo scudetto e Coppa, mica male!»

Nel tuo primo anno alla Juventus hai avuto Dino Zoff come preparatore dei portieri. Quanto ti è servito? «Mi dava molta sicurezza».

Gli hai chiesto dei consigli? «Nessun consiglio. Anche lui aveva fatto così durante tutta la sua carriera. Ognuno deve fare di testa sua. Io poi sono sempre stato un tipo un po’ naif. Ero un orso, prima della partita non sono mai uscito a fare riscaldamento. Me ne stavo da solo nello spogliatoio. E poi non seguivo tabelle. Non c’era scienza nel mio gioco. Solo istinto e cuore».

Ed anche una particolare attenzione al look: con te le magliette si sono colorate vistosamente: «Era anche un modo per distinguersi dagli altri. E poi mi sono sempre piaciuti i colori sgargianti. Tutti tranne il giallo che portava sfiga».

È vero che disegnavi tu stesso i modelli? «Sì, me li cucivo addosso. Anche se nella mia prima finale europea la maglia me la dette Zoff».

Perché? «Contro il Porto dovevamo giocare con le divise pulite, senza scritte commerciali. Io invece avevo tutte le maglie con lo sponsor. Allora Dino mi prestò la sua e così feci un ritorno al grigio. Che portò benissimo».

Ricordi un intervento in particolare della notte di Basilea? «La doppia parata su due tiri ravvicinati nel giro di cinque secondi. Modestamente ho dato anch’io il mio contribuito alla conquista della Coppa delle Coppe».

Quello fu il tuo primo trofeo internazionale al quale sono seguiti tutti gli altri, nessuno escluso: «Sono l’unico portiere ad aver vinto tutto. Voglio vedere che aspettano a mettere il mio nome nella “Walk of Fame” di Montecarlo!»

La lingua è ancora tagliente! «Guai se non fosse così. Anche se le mie uscite in carriera mi sono costate un sacco di soldi».

Quanti? «Più di 200 milioni. Anche se quella volta degli elicotteri di Berlusconi l’Avvocato Agnelli ne pagò la metà. Un grande!»

Quali sono stati i momenti più belli vissuti alla Juve? «Tutte le finali internazionali, con Tokyo un gradino su tutte: parai due rigori, quel giorno avevo una maglia verde».

E quelli più difficili? «Uno su tutti: quando rimasi fuori da novembre ad aprile, durante il campionato 1984/85. Ho sofferto molto, ho masticato amaro, ma alla fine ho vinto io. Feci anche la finale di Coppa Campioni, anche se ancora oggi non so perché il Trap mi fece giocare».

Che voto dai ai tuoi dieci anni alla Juve? «Dieci e lode».

 

 

NICOLA CALZARETTA, “GS” GENNAIO 2012:

In mano ha una busta della spesa con un peperone rosso appena acquistato dal verduraio di fiducia: «Oggi preparo un bel sugo ai peperoni, tanto se non cucino io, in casa mia non ci pensa nessuno».

È in perfetta forma, Stefano Tacconi, gli occhi azzurri scintillanti e la solita lingua tagliente. Siamo a Cusago, periferia sud di Milano. Mattinata brumosa, ma non fredda. L’appuntamento è in un bar del centro. Tuta nera, capelli biondo cenere spettinati come tendenza comanda e solito pizzetto ben curato. Un Campari, qualche patatina e via libera ai ricordi. Che sono tanti, perché lunga e ricca di eventi è stata la carriera di Tacconi, nato a Perugia il 13 maggio 1957. L’Inter, che lo aveva adocchiato da bimbetto, lo mette alla prova tra Spoleto, Busto Arsizio, Livorno e San Benedetto del Tronto. Poi, però, lo lascia libero.

Ogni anno, uno scatto in avanti, fino alla Serie A con l’Avellino nel 1980. Ha una montagna di riccioli, il baffo precoce ed una voglia matta di arrivare. Nel 1983 ecco la Juventus per il dopo Zoff, hai detto nulla. Spaccone ed irriverente, si prende la maglia da titolare e scrive pagine storiche in bianconero. Conquista scudetti, ma soprattutto tutte le coppe possibili ed immaginabili. Quella di più alto grado, la Coppa Intercontinentale, giusto ventisei anni fa, l’8 dicembre 1985 a Tokyo contro l’Argentinos Juniors: «L’ho vinta da protagonista, come avevo sempre sognato. Per un portiere è il massimo arrivare a giocarsi un trofeo ai calci di rigore. Quando l’arbitro ha fischiato la fine dei supplementari, ho detto: “Ed ora vado a prendermi la coppa”. Ero convinto, sicuro che quello sarebbe stato il mio momento. E difatti ho parato due rigori su quattro e siamo diventati Campioni del Mondo».

Detta così, più facile che bere un bicchiere d’acqua: «La partita è stata dura. Non quanto la preparazione, però».

In che senso? «Siamo arrivati a Tokyo praticamente una settimana prima della gara, dopo un viaggio in aereo che non finiva più. Boniperti, tirato come sempre, ci faceva viaggiare in economica, mai in business. Io, Brio e Serena sembravamo dei ricci, raggomitolati tra una fila di seggiolini e l’altra. Facemmo scalo in Alaska, atterrando su una montagna di neve. Il fuso orario ci ammazzò. E questo è stato il viaggio».

E a Tokyo? «Un casino. La città stava aspettando da mesi l’evento. Eravamo sempre imbottigliati nel traffico. Trapattoni, poi, era una belva perché avevano messo sia noi che gli argentini nello stesso albergo. La tensione saliva a vista d’occhio. Non c’era altro che allenamento, mangiare e dormire. Io ho resistito fino al quinto giorno».

Dopodiché? «Sono scappato e sono andato a cercarmi una geisha».

Trovata? «Sì e posso dire che dopo sono stato parecchio meglio».

Nessuno si è accorto di nulla? «No, o per lo meno nessuno mi ha detto niente. Mancavano due giorni alla partita. Erano tutti stressati. Io no».

Avevate qualche timore? «Era la finale di una coppa, gara secca. Non puoi mai stare tranquillo. Noi, comunque, eravamo abituati agli scontri diretti. Non come adesso che è tutto a gironi. Certo, qui ci giocavamo il mondo. Per la società poi c’era l’ulteriore traguardo di diventare l’unica squadra ad avere vinto tutte le coppe internazionali».

Ci furono particolari accorgimenti tattici? «Si doveva vincere. E basta. Noi eravamo la Juve».

Il tuo pre-gara come è stato? «Quello di sempre. Da solo, nello spogliatoio, alla ricerca della concentrazione. Non sono mai uscito a fare riscaldamento. Non concepisco i portieri di oggi che stanno fuori un’ora prima della partita. E poi i saluti, i sorrisi nel sottopassaggio, ma che storia è? Io ero un orso. Dovevo stare da solo. Con la mia Marlboro ed il caffè».

E la testa in quei momenti dove è andata? «È andata a mio fratello che, insieme a tanti tifosi della Juventus di tutta Italia, è partito con il pullman da Lucca per raggiungere Milano».

Per seguire in diretta TV la partita? «Sì. I diritti li acquistò Canale 5, ma la diretta avrebbe coperto solo la Lombardia. Noi giocammo a mezzogiorno, le quattro di notte in Italia. La differita l’avrebbero trasmessa nel pomeriggio dell’8 dicembre (tra l’altro l’ho vista anch’io). Prima della partita pensai a lui ed a tutti quelli che stavano facendo chilometri per vederci in televisione».

Tokyo, ore 12:00. Ci siamo: «Lo stadio era tutto bianconero, sembrava di stare a Torino. In panchina, accanto al Trap, c’erano tutti i dirigenti, perfino Edoardo Agnelli che, però, non aveva l’autorizzazione per stare in campo. Alla fine del primo tempo fu cacciato, ma lui trovò il modo di tornare dentro lo stesso».

Che rapporto avevi con lui? «Ottimo. Un bravo ragazzo, malinconico, ma genuino. Ricordo che prima della partita dell’Heysel, quando ancora fuori non era successo niente, prese una sedia, ci salì sopra e fece un discorso a tutta la squadra. Ci fece piacere. Si sentiva accolto da noi. Qualche volta è venuto persino in ritiro a Villar Perosa, come suo cugino Giovanni Alberto. Ma il calcio non era nelle loro corde: avevano i piedi pieni di vesciche».

Intanto le squadre sono schierate ed il tedesco Roth fischia l’inizio: «La partita fu bella, tirata, sempre in bilico, con continui cambi di fronte. Di là c’era gente come Olguin, Batista e Borghi, che era fortissimo».

Due goal per parte, più qualche altro annullato: «Ci siamo trovati a rincorrere, ma quella squadra poteva ancora contare su uno zoccolo duro di qualità, da Cabrini a Brio, da Scirea a Platini. Erano andati via Tardelli, Rossi e Boniek, ma era arrivata gente giovane come Mauro, Laudrup e Serena, oltre a Manfredonia, un leone. A un certo punto si fece male Scirea ed entrò Pioli, che aveva vent’anni. Fu bravissimo, dimostrò una personalità incredibile. Questa era la Juventus».

Tutto bello, ma a dieci minuti dalla fine siete sotto di un goal: «E lì c’è stato il capolavoro di Laudrup. Un pazzo scatenato. Anch’io ho urlato dalla mia porta di buttarsi per terra quando il portiere lo ha ostacolato. Il danese era un puledro purosangue. Quel goal lì, dalla linea di fondo, solo lui poteva farlo».

Fine dei 90 minuti, ecco i supplementari: «A quel punto non me ne importava più niente. Volevo i rigori. Dovevo entrare in scena io, da protagonista vincente. Fremevo dalla voglia».

Come ti sei preparato alla lotteria finale? «Io non avrei fatto nulla, come era mio solito. Non ho mai visto cassette sugli avversari, non avevo dossier sugli attaccanti. Mi bastava l’istinto, la forza e la convinzione. In quel caso, invece, Romolo Bizzotto, il vice di Trapattoni, mi fece vedere per decine di volte la cassetta della finale della Libertadores tra Argentinos ed America di Cali, finita anche quella ai rigori. Non ne potevo più, quella cassetta diventò un incubo».

Ma ti è servita o no? «Servita, servita. Imparai a memoria tutto, chi erano i rigoristi, come calciavano, da che parte avrebbero tirato. Anche se poi, a Tokyo, non mancarono le sorprese».

Tipo? «Intanto Olguin, il primo rigorista, cambiò l’angolo. Io andai deciso sulla mia sinistra e lui la buttò dall’altra parte. Mi alzai e mandai a quel paese Bizzotto e la sua maledetta cassetta».

Con Batista invece tutto filò liscio: «Fu un *! Non cambiò nulla nell’esecuzione, piattone sulla mia sinistra. Io, in verità, anticipai un po’ il tuffo, tanto che presi il pallone con la mano sotto il corpo. Esultai come un centravanti, iniziai a non capire più nulla. Ero carichissimo, dovevo sfogare tutto, gioia compresa. Anche perché con la mia parata eravamo in vantaggio di un goal, visto che Brio e Cabrini avevano segnato».

E così arriviamo al terzo rigorista, tale Juan Josè Lopez: «E chi lo conosceva? Era entrato a tre minuti dalla fine dei tempi supplementari, solo per tirare il rigore. Iniziai a guardare la panchina, ma il Trap fece finta di non vedere, nemmeno lui sapeva chi fosse. Ma * miseria, possibile che nessuno lo conosca? Oltretutto, mentre si avvicinava al dischetto, mi guardava con aria incazzata perché avevo preso il tiro di Batista. Ma che cavolo vuoi? Fece goal, ma con il piede per poco non gliela prendevo».

La situazione si fa incandescente. Laudrup sbaglia. Per te c’è Pavoni. Se segna, l’Argentinos pareggia: «Lui c’era nella cassetta. Era un tipo massiccio, dal tiro forte e centrale. Devo dire che sono stato bravo, riuscendo a muovermi solo un istante prima del calcio. Feci un piccolo spostamento sulla destra, riuscendo però a ritrovare la posizione eretta ed a respingere con il corpo. E lì ho esultato come un matto. Sapevo che era l’ultimo».

Non è vero, c’era ancora Platini: «Appunto».

Non avevi dubbi su Michel? «Nessuno. Platini disputò la sua più bella finale con la Juve. Anzi, direi l’unica finale giocata da star. Ad Atene non era lui, ma neanche a Basilea brillò. Sull’Heysel meglio non dire nulla. A Tokyo era in vena, oltretutto gli annullarono un goal magnifico».

Per colpa di chi? «Di Brio, che era in fuorigioco, ma che non c’entrava niente con l’azione. Michel ancora oggi lo maledice. Ma in realtà l’arbitraggio non fu all’altezza, così come il campo: buche, zolle, ciuffi d’erba qua e là, una pena».

E le trombette? «Non le sentivo. La testa era per quella coppa. Sull’aereo, nel viaggio di ritorno, ci ho dormito insieme. Una gioia immensa».

Anche per le tasche? «A testa ci toccarono 125 milioni, non male».

In quei casi Boniperti pagava volentieri? «Boniperti non pagava mai volentieri, ma era molto bravo a riscuotere, specie con me».

Perché ti multava così spesso? «Perché io ero diverso dagli altri. Se avevo qualcosa da dire, la dicevo, non guardavo in faccia nessuno. Se volevo fumare, fumavo. Fumavo e vincevo, però. Fuori dal campo volevo fare come mi pareva: dal lunedì al sabato non volevo rotture di scatole».

Torniamo al trionfo di Tokyo: con la conquista dell’Intercontinentale la Juventus continua a dettare legge: «Ancora per poco, a dire il vero. La partenza in campionato fu da urlo, otto vittorie consecutive, un record. Per essere pronti per la finale, infatti, avevamo cambiato la preparazione, accelerando i ritmi ed i tempi. L’idea, o meglio la speranza, era che si potesse prolungare il grande ciclo bianconero che durava dal 1977. In realtà quella squadra fu pensata quasi esclusivamente per vincere l’Intercontinentale».

Ma a maggio del 1986 quella squadra conquistò lo scudetto: «Si, ed è stato l’ultimo prima di Lippi! Quel campionato l’abbiamo ripreso per i capelli grazie al Lecce alla penultima giornata. La verità è che si chiudeva una storia, il decennio di Trapattoni».

A proposito del Trap, con lui hai fatto fatica? «È stato il mio primo allenatore alla Juve. C’era rispetto, forse un po’ di distanza. Era un martello pneumatico, non ti mollava mai. Nella mia seconda stagione mi ha tenuto fuori per sei mesi, ma ancora oggi non so il perché».

Non avete mai chiarito questa cosa? «Quando mi vede, mi dice sempre: “Tu lo sai il perché”. Ma io non so un cavolo. L’unica cosa che posso dire è che sono uscito di squadra che eravamo quarti e sono rientrato con la Juventus quinta. Solo colpa mia?».

Come si sta in panchina? «Fa freddo».

Come hai reagito alla decisione di metterti fuori squadra? «All’inizio l’ho messa in vacca. Ho mollato. Ero incazzato nero. Parlavo male di tutti. Poi è scoccata la scintilla ed ho tirato fuori l’orgoglio. Fino al rientro in squadra».

Hai mai pensato di lasciare la Juve? «Dissi di no al Napoli che mi offri un 1.200 milioni quando ne prendevo 700. Volevo dimostrare che ero da Juve. Dicevo: gioco e rivinco. Ho tirato fuori il meglio di me, come feci nel 1980 alla mia prima stagione con l’Avellino».

Perché, in quel caso cosa successe? «Semplice: l’allenatore, Luis Vinicio, voleva farmi fuori. Eravamo nel pre-campionato ed io, francamente, pensavo a tutto tranne che al pallone. Poi feci un partitone a Palermo, il 24 agosto, e da lì tutto è filato liscio come l’olio. È sempre il campo che fa la differenza».

Ma intanto la domenica giocava Bodini: «Ma io ero convinto che prima o poi sarei tornato. In una squadra c’è il numero 1 ed il 12. Ed il 12 di quella Juve era Bodini. Lo so che c’è rimasto male, ma io dovevo tornare a giocare. Rientrai a tre giornate dalla fine e poi feci la finale di Coppa Campioni all’Heysel. Senza nessuna spiegazione da parte di Trapattoni».

Dai “non detti” del Trap passiamo alle coccole di Zoff: «Dino mi voleva bene, ricambiato da me. L’ho avuto il primo anno come preparatore dei portieri alla Juve, poi due anni con la Nazionale olimpica ed altre due stagioni come allenatore alla Juve. Ha sempre puntato su di me, mi ha messo dentro anche quando non stavo bene».

Quando è successo? «Quella volta che mi fratturai due costole, prima di una gara di Coppa Uefa. Lui andò dal dottore che confermò la diagnosi. Sai che rispose? “Io ho giocato con tre costole rotte”. Ed allora gioco anch’io, risposi».

Cosa ti ha insegnato Zoff? «Mi ha dato tranquillità, psicologicamente mi ha rafforzato molto. Dal lato tecnico, niente. Non gli ho mai chiesto consigli, né lui mai li ha dati a me. Mi diceva sempre: che ti devo insegnare? Quello che hai accumulato ce l’hai, io ti devo allenare. Che errore cacciarlo».

Che gusto hanno avuto le due coppe vinte con lui? «Per me ancora più saporito di tutte le altre. Perché erano quelle che mi mancavano per entrare nella storia e perché le ho tirate su io per primo come capitano».

Curiosità: com’è che la fascia era finita sul tuo braccio? «All’inizio della stagione 1988/89 Zoff la dette a Tricella, facendo fuori Brio. Ma Tricella cosa c’entrava? Era alla Juve da pochissimo. L’anno dopo mi sono imposto, ne ho parlato con Zoff e tutto è tomato nell’ordine. Ero io il più anziano della rosa».

Invece Maifredi? «Alla prima intervista da allenatore della Juventus dichiara: “Tacconi con me non sarà capitano”. Carino, eh?».

E tu? «Quando ci siamo incontrati per la prima volta gli dissi che tra uomini si parla guardandosi negli occhi. Poi gli dimostrai che avevo tutti i requisiti per portare la fascia».

Cosa facesti? «Chiamai l’Avvocato Agnelli e poi passai la telefonata a Maifredi: “Mister, c’è qui qualcuno che vorrebbe parlarle”. Diventò rosso, si infuriò, ma capì che l’aveva fatta fuori dal vaso. Maifredi partì malissimo. Dopo la figuraccia in Supercoppa con il Napoli, chiesi alla società di cacciarlo, ma Montezemolo mi rispose: “L’ho portato io”. I risultati alla fine si sono visti».

Tatticamente l’idea era buona: «Quando Maifredi parlava di tattica e schemi andavo a giocare a tennis con Sorrentino, il preparatore dei portieri».

Cos’è che non funzionò davvero? «Maifredi aveva sfasciato lo spogliatoio. Per lui c’era solo Baggino. Sai quante volte gli ho detto: “E gli altri?”. L’aria era elettrica. C’erano continue litigate. Qualche giorno prima della partita di Coppa contro il Barcellona, con Dario Bonetti arrivarono alle mani. Era inevitabile che accadesse».

Chiusa la parentesi Maifredi, tornano il Trap e Boniperti e tu, però, chiudi il tuo ciclo bianconero: «Puntarono su Peruzzi ed io non avevo nessuna voglia di stare in panchina. Non avrei mai fatto il dodicesimo, non l’avrei fatto neanche a Zoff a suo tempo. E lo dichiarai pure».

Già, quella volta lì l’hai sparata veramente grossa! «La Juve mi aveva di fatto preso nell’aprile 1983, il sentore era che Zoff avrebbe smesso. Poi lui, in un’intervista dopo Atene, fece capire che forse avrebbe continuato. Allora io dissi: “O me o lui”. La sparai grossa, può darsi. Ma questo è il mio carattere. Spregiudicato, spaccone, un po’ presuntuoso. Ma se non sei così, muori».

Diciamo che il carattere ti è servito per resistere ai massimi livelli per molti anni: «Ho iniziato nel 1976 a Spoleto in Serie D ed ho chiuso al Genoa a trentotto anni, vincendo tutto. Ho giocato con fuoriclasse assoluti alla Juventus. Ho affrontato tutto il meglio del calcio mondiale di quegli anni: Zico, Maradona, Vialli, tanto per metterli un podio. Se penso ai portieri di oggi della Serie A, mi chiedo che cosa racconteranno».

Chi ti ha insegnato i segreti del ruolo? «Gino Merlo, al Livorno. Lo chiamavano il portiere ballerino. Un giorno mi prende e mi fa: Conosci il valzer? No, perché? Il valzer ti da i tempi. Un, due, tre ... e fai il movimento. Che lezione».

Quale è stata la più bella parata che hai fatto? «Ce ne sono tante. Dal mucchio prendo quella al 90° contro il Colonia nel ritorno della semifinale di Coppa Uefa 1990. Se entrava quel pallone, eravamo fuori. Tiro da dentro l’area, Brio che mi copre la visuale, io schizzo sulla sinistra e devio in angolo. Lì ho esultato come a Tokyo».

E tra le tante maglie indossate in bianconero, a quale sei più legato? «A tutte quelle con cui ho giocato le finali. A Basilea quella grigia me la prestò Zoff perché le mie avevano lo sponsor, mentre l’Uefa imponeva la divisa pulita. Mi è sempre piaciuto curare il look, molti dei modelli che ho portato li disegnavo io stesso».

È tua anche l’idea delle mezze maniche? «Io le mezze maniche me le mangio oggi a pranzo. Con un bel sugo ai peperoni».

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Stefano, ma sempre parlando di Tacconi, nei quarti di finale di coppa campioni 85 con lo sparta e in semifinale con il Bordeaux, perche gioco Bodini (tra l'altro egregiamente) ? Tacconi ebbe problemi con Trapattoni? Grazie amico :)

Da " La Repubblica " 7 -Settembre 1985-

 

TRAPATTONI S' ARRABBIA 'TACCONI NON CERCHI SCUSE...'

 

TORINO - Il portiere della Juventus Tacconi torna agli onori della cronaca. Dopo la partita di Firenze dichiarava di ricordare con nostalgia i consigli di Zoff. La sua dichiarazione è stata interpretata come una richiesta di un allenatore specifico. Secca la reazione dell' allenatore in seconda Romolo Bizzotto che cura in particolare i portieri: "L' ingratitudine della gente non ha limiti. Per mia fortuna la società sa valutare attentamente la capacità e l' attaccamento dei suoi dipendenti. Sono quattordici anni che lavoro per la Juventus, la squadra ha vinto tutto. Quindi...". Anche Trapattoni ha difeso Bizzotto. " inutile in questo momento cercare scuse puerili. Errori ne commettono tutti. Neppure il grande Zoff ne è stato esente. Bizzotto è un tecnico collaudato che per undici anni ha allenato Zoff. Per favore non tiriamo fuori problemi".

 

 

 

-Da Intervista a " Radio Gol " - 11- Settembre 2012 -

 

E ha proseguito raccontando la sua vita particolare da sportivo, non mancando qualche frecciatina a Trapattoni: “Se fumavo una sigaretta tra il primo e secondo tempo? Anche due, insieme a Michel Platini. Le reazioni del Trap? Perchè contava qualcosa Trapattoni in quella Juventus? Non contava granché, lui fischiava e basta! Aveva i migliori giocatori italiani e due fuoriclasse stranieri, erano tutti allenatori in campo, cosa doveva fare lui? E poi bevevo la China Martini, però stavo bene. Ognuno ha il suo stile di vita, fumando e bevendo stavo bene a differenza di Galli che indossava il pantalone lungo anche a Ferragosto e aveva paura anche della pioggia e dell’influenza”.

L’intervista si è conclusa con una battuta sull’eterno rivale Zenga: “Invidia con Zenga? Ma forse lui ne aveva verso di me e rodeva. Io vincevo con la Juve e non mi è mai fregato niente. In Nazionale ci giocava lui? Peggio per la Nazionale, no?”

 

 

-Da " Calcio Web " - 28 Settembre 2014 :

 

L’ex portiere della Juventus, StefanoTacconi, ha rilasciato una lunga intervista a La Gazzetta dello Sport, svelando diversi retroscena. Molto particolare è quello relativo a MichelPlatini: “una volta corse fin dal centrocampo verso di me urlandomi: “esci!” e io gli dissi: “francesino stai calmino e vedi di andartene a fancu*o!”

Tacconi ha poi parlato anche di Giovanni Trapattoni, accusandolo di averlo lasciato fuori e senza usare mezzi termini per lui: “Trapattoni alla Juve non contava niente, fischiava e basta. Aveva i migliori giocatori italiani in campo e due fuoriclasse stranieri, erano tutti allenatori in campo, cosa doveva fare lui? Mentre fischiava Platini gli diceva di stare seduto e non rompere le scatole. Trapattoni è l’unica persona del calcio italiano che non mi manca per niente”.

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Al di la' di quello che sembra,ho sempre saputo che e' uno capace di acuta ironia.Un grande,uno stellare.Dispiace che la Juve lo tratto' male da allenatore.Mandato via x emulare,x la prima volta nella storia, il Milan di Sacchi,senza avere ne giocatori,ne allenatore x fare cio'.Ed infatti,finimmo fuori dall'Europa dopo 25 anni consecutivi di partecipazione.Dimenticavo:Fu' mandato via dalla nazionale x aver perso una finale al golden gol,finale giocata alla grande e meritevole di vittoria............e tutto x colpa di un nanerottolo che evadeva le tasse......ed altro.

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Che spaccone ragazzi, mamma mia!! Molto poco anti-juve le sue dichiarazioni. E anche parecchio ignoranti. Tante voltenel calcio e' stato dimostrato che ci vuole un grande mister per fare rendere al massimo tanti fenomeni. Grazie stefano!!

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D'accordissimo sul fatto che dovesse giocare Bodini, ti ringrazio molto per l'intervista caro Stefano :) Un personaggio che o piace o no, io ho avuto la sfortuna di non poter averlo vissuto personalmente ( non ho visto nemmeno Rampulla, sono proprio uno sbarbatello :d ) in ogni caso hai detto bene, e' ancora innamorato della Juve e non puo' che far piacere la cosa...

La parte piu simpatica dell'intervista?? Quando ha detto che Boniperti li mando a Tokio con la classe economica :risata3: :risata3:

Boniperti e' proprio un provincialotto taccagno :d :d :d

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