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Mormegil

Guerra di Siria e situazione mediorientale: news e commenti

Post in rilievo

Posto questo articolo di D.Raineri pubblicato sul Foglio di sabato scorso, che (quasi) nessuno leggerà perché molto lungo ma che condivido totalmente.

In sintesi l'autore dice cose che già si sapevano ma che è sempre meglio ribadire e che sottolineano come l'Occidente stia facendo molto contro il Califfato pur dando l'impressione di fare poco, a differenza di altri che pur strafottendosene dell'Isis se la vendono come se stessero vincendo la guerra da soli. Ed ogni riferimento all'asse russo-iraniano è puramente voluto.

 

Ciao, scusa se ti muovo una critica, ma mi sembra che questo articolo, pur volendo portare avanti la causa occidentale, sia in realtà un autogol clamoroso se letto con un poco di senso critico.

Mettere in ordine le idee mentre ti rispondo da cellulare mi viene difficile ma così su due piedi ci sono 2 cose che mi sono subito saltate all'occhio:

 

-La prima che mi viene in mente è quando parla delle milizie iraqene addestrate dai nostri militari e armate dagli Usa, dimenticandosi che:

1-Sono le stesse che hanno fornito agli stati canaglia che armano l'Isis (Arabia saudita in primis)))

2-L'humus nel quale i jihadisti hanno proliferato è la naturale conseguenza della guerra che GB e Usa si sono inventati di sana pianta nel 2003 CON PROVE FALSE

 

-Tutto questo senza neanche citare e dare un briciolo di merito al ruolo dell'Iran che ha speso uomini,mezzi e capitali ingenti nell'addestramento delle milizie sciite che, insieme ai curdi, sono quelle maggiormente coinvolte nella lotta all'Isis.

 

-La seconda enorme boiata che dice l'articolo riguarda la Libia, più o meno per le stesse ragioni che ho detto prima.Ci vuole una bella faccia tosta a prendersi dei meriti ora, quando invece sono andati a distruggere uno dei pochi stati africani che funzionava, creando una CATASTROFE UMANITARIA E POLITICA di cui noi più di chiunque altro ne stiamo pagando le spese. Sinceramente mi irrita anche solo parlarne visto l'ipocrisia con cui tratta l'argomento.

 

Ci tengo a dire che è difficile farsi un'opinione con tutte le balle che vengono scritte e dette dai media pro Russia o pro Usa, però, per una questione di coerenza, se bolli i primi di cialtroneria non puoi poi portare come esempio di buon giornalismo questa roba.Davvero trovo che sia un insulto all'intelligenza di chi legge.Col massimo rispetto.

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In astratto sono d'accordo che prevenire sia meglio che curare. Il fatto è che in M.O. è impossibile prevedere tutti gli infiniti sviluppi di una scelta piuttosto che di un'altra. Per questo non addosserei all'Occidente (in senso lato) responsabilità oltre un certo limite ragionevole.

Prendiamo Daesh.

Possiamo dire che il "peccato originale" dell'"Occidente" sia stata la scellerata strategia di "pacificazione" dell'Iraq da parte americana, anzi da parte di alcuni settori dell'establishment americano che avevano Paul Bremer come terminale a Baghdad. Un errore di strategia che ha del clamoroso (e che sfocia nell'ottusità), costato il caos e decine di migliaia di morti da una parte e dall'altra e nel quale è maturata la nascita di Daesh.

Ma poi? Quanto di tutto ciò che è successo in seguito può essere imputato all'"Occidente" e quanto invece a cause endogene, locali, (quasi) totalmente imprevedibili, fuori controllo, su cui gli occidentali non avevano di fatto più alcuna voce in capitolo?

Daesh non nasce per un qualche perfido disegno "della Cia" o "di Israele", o "dell'Arabia Saudita" come a taluni piace credere (e far credere), bensì nasce da una convergenza di interessi diversi prodotti da dinamiche su cui l'Occidente non aveva più alcun controllo:

Io ho scritto che ha contribuito, quindi che gli Usa l'Occidente ha parte delle responsabilità. Non tutte e non esclusivamente. Già ne hai evidenziata una te, quindi il concorso di colpe è innegabile.

 

Non ha molta importanza come si sia sviluppato l'Is, a me interessano le condizioni per cui ha potuto farlo, cioè quelle condizioni per cui un gruppuscolo come tanti abbia potuto statualizzarsi in un territorio a cavallo fra due Stati, grazie a un disgregamento delle istituzioni pubbliche. E poi mi interessano le condizioni grazie alle quali il nuovo sedicente califfato abbia potuto svilupparsi, e cioè l'impossibilità occidentale di intervenire direttamente per due motivi: un impasse strategico tra le potenze e il rischio di reazioni negative nel mondo arabo.

 

Condizioni che derivano principalmente dall'invasione dell'Iraq nel 2003: il "caos iracheno", il ruolo degli ex baathisti, l'accentuato contrasto sunniti-sciiti in Iraq. Non capisco perché continui a ometterla, spostando tutte la attenzioni sulla gestione post-conflitto.

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Ciao, scusa se ti muovo una critica, ma mi sembra che questo articolo, pur volendo portare avanti la causa occidentale, sia in realtà un autogol clamoroso se letto con un poco di senso critico.

Mettere in ordine le idee mentre ti rispondo da cellulare mi viene difficile ma così su due piedi ci sono 2 cose che mi sono subito saltate all'occhio:

 

-La prima che mi viene in mente è quando parla delle milizie iraqene addestrate dai nostri militari e armate dagli Usa, dimenticandosi che:

1-Sono le stesse che hanno fornito agli stati canaglia che armano l'Isis (Arabia saudita in primis)))

2-L'humus nel quale i jihadisti hanno proliferato è la naturale conseguenza della guerra che GB e Usa si sono inventati di sana pianta nel 2003 CON PROVE FALSE

 

-Tutto questo senza neanche citare e dare un briciolo di merito al ruolo dell'Iran che ha speso uomini,mezzi e capitali ingenti nell'addestramento delle milizie sciite che, insieme ai curdi, sono quelle maggiormente coinvolte nella lotta all'Isis.

 

-La seconda enorme boiata che dice l'articolo riguarda la Libia, più o meno per le stesse ragioni che ho detto prima.Ci vuole una bella faccia tosta a prendersi dei meriti ora, quando invece sono andati a distruggere uno dei pochi stati africani che funzionava, creando una CATASTROFE UMANITARIA E POLITICA di cui noi più di chiunque altro ne stiamo pagando le spese. Sinceramente mi irrita anche solo parlarne visto l'ipocrisia con cui tratta l'argomento.

 

Ci tengo a dire che è difficile farsi un'opinione con tutte le balle che vengono scritte e dette dai media pro Russia o pro Usa, però, per una questione di coerenza, se bolli i primi di cialtroneria non puoi poi portare come esempio di buon giornalismo questa roba.Davvero trovo che sia un insulto all'intelligenza di chi legge.Col massimo rispetto.

 

Ad alcune delle obiezioni che sollevi, laddove si parla di "responsabilità occidentali" nell'attuale situazione mediorientale, in pratica rispondo con il mio post #1075.

 

Personalmente ritengo che non sia stato un errore fare fuori Saddam (che neanche le monarchie del Golfo amavano particolarmente, se non in funzione anti-Iran), bensì che sia stato un errore distruggere dall'oggi al domani e senza alcuna compensazione l'apparato statale sunnita iracheno (esercito, polizia, amministrazione pubblica) pensando di sostituirlo con una nuova architettura a matrice sciita, nell'illusione che gli sciiti iracheni -per decenni vessati da Saddam- si scoprissero in grado di subentrare senza traumi alla gestione sunnita: cosa che non poteva assolutamente essere e sulla quale l'Iran ha pesantemente influito pro domo propria, soffiando sul fuoco della rivalsa sciita e contribuendo in maniera diretta a quella spirale di odi e vendette tra sciiti e sunniti in Iraq che si perpetua tutt'ora: l'Iran ad esempio ha inviato finanziamenti e consiglieri militari a Moqtada Sadr, nel 2004, contribuendo ad incendiare contro gli americani gli sciiti del sud-Iraq: quegli stessi sciiti sui quali gli americani avevano puntato per stabilizzare l'Iraq.

Quindi, sotto questo punto di vista, il fatto che Saddam sia stato eliminato con la scusa della provetta di antrace sventolata da Colin Powell all'Onu trovo sia del tutto irrilevante, perché per come la vedo io l'errore non è stato fare fuori Saddam, bensì rinunciare ai sunniti (ed a tutto il loro apparato) per stabilizzare l'Iraq nel post-Saddam, oltretutto senza riuscire ad ingraziarsi gli sciiti divenuti terreno di caccia dell'Iran.

 

Il vero punto di crisi è questo. Nel caos si sviluppa Daesh, come spinta endogena e per le ragioni che ho descritto nel #1075, sfruttando e strumentalizzando la frustrazione delle tribù sunnite e degli ex-saddamiti messi da parte. Però cos'era Daesh inizialmente? Era un gruppo di tagliagole che ad un certo punto con il nome di "Al Quaida in Iraq" (AQI) decide di affiliarsi ad Al Quaida casa-madre, senza però diventarne parte, senza sposarne completamente la strategia (Al Quaida ad esempio era contraria a colpire gli sciiti iracheni, cosa che invece il gruppo di Zarkawi ha fatto regolarmente come strategia del maggior caos) e senza ascoltare -o meglio facendo orecchie da mercante- agli ammonimenti che il nuovo leader di Al Quaida, Al Zawahiri subentrato a Bin Laden rivolge a Zarkawi.

Quindi AQI diventa di fatto incontrollabile anche dalla stessa Al Quaida e comincia a seguire una strategia propria (quella che la porterà poi ad espandersi in Siria): una strategia sulla quale gli Stati Uniti non hanno alcuna parte e sulla quale anche l'Arabia Saudita comincia a perdere presa.

Perché anche su questo punto credo ci sia parecchia confusione.

 

Le semplificazioni occidentali (ed una certa fissazione dualistica delle meccaniche universali) portano a voler sempre distinguere tra "bene" e "male", tra "buoni" e "cattivi", quindi a ritenere che vi sia tout-court uno "stato canaglia" chiamato "Arabia Saudita" biecamente intento a foraggiare i cattivi ai danni dei buoni, tra i quali finisce anche l'Iran. In realtà è una semplificazione manicheistica.

È probabile che l'Arabia Saudita (intesa come gruppo di governo) sia intervenuta a suo tempo per foraggiare AQI, sia per contrastare l'espansionismo iraniano in Iraq, sia per indebolire Al Quaida dall'interno, visto che Al Quaida ai Saud gliela aveva giurata fin dai tempi di Bin Laden, e che quindi vi sia stato un certo ruolo del gruppo dirigente saudita nello sviluppo di quello che poi sarebbe diventato Daesh/ISIS.

Però, nel momento in cui, Al Baghdadi decide di autoproclamarsi "califfo" di fatto puntando a diventare l'autorità religiosa di riferimento per tutti i credenti sovrastando quella degli stessi Saud, che -ricordiamolo- hanno il ruolo di "custodi" dei luoghi sacri dell'Islam, ecco che probabilmente per forza di cose, termina ogni possibile rapporto tra l'Isis e l'Arabia Saudita, visto nessun Saud può accettare la subordinazione di fatto ad un improvvisato califfo fai-da-te (al Baghdadi è letteralmente un signor nessuno, un morto di fame qualunque uscito dalla galera di Camp Bucca, che non può essere preso come pari o addirittura come superiore neanche dal più sfigato dei Saud)

 

Per questo dire che "l'Arabia Saudita canaglia arma l'Isis" trovo sia una semplificazione.

 

Altro aspetto: noi ci immaginiamo la famiglia reale saudita come un gruppetto di sceicchi intento a tessere le loro trame. Il che è senz'altro vero, ma bisogna aggiungere che si tratta di un "gruppetto" formato da migliaia di persone, tutte immensamente ricche, una parte delle quali rivestite di incarichi di governo ed un'altra parte invece no, con queste ultime occupate a combattere una guerra interna spietata ai primi per sostituirsi ad essi.

Quindi, una cosa è parlare di azioni "ufficiali" del governo saudita in termini di politica estera, accordi internazionali, attività politiche interne, ecc, ed altra cosa sono le manovre "private" di elementi, magari pure riconducibili alla cerchia dei Saud ma che con la politica ufficiale del Regno non ha nulla a che fare, in quanto riconducibili al ginepraio incintrollabile di fondazioni caritatevoli private, gestione delle elemosine ed altro, messe in atto anche in contrasto con le scelte del Regno.

 

Una parola sull'Iran. L'Iran non combatte l'Isis: l'Iran in M.O. segue una propria agenda politico-strategica che punta a costituire una "mezzaluna sciita" dal Libano al golfo persico, passando per la Siria e l'Iraq; persegue quindi i propri obiettivi che talvolta si trovano anche a confliggere con l'Isis ma per la maggior parte no, in quanto l'Isis è un ulteriore elemento di utile frattura nel mondo sunnita, una scheggia impazzita produttrice di caos, funzionale a mantenere un fossato di diffidenza tra l'Occidente (soprattutto la sua opinione pubblica e parte delle forze politiche) e le principali potenze sunnite della regione (leggasi Arabia Saudita e monarchie del Golfo).

 

Diffidenza che, in un modo o nell'altro gioca a favore di Teheran.

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Io ho scritto che ha contribuito, quindi che gli Usa l'Occidente ha parte delle responsabilità. Non tutte e non esclusivamente. Già ne hai evidenziata una te, quindi il concorso di colpe è innegabile.

 

Non ha molta importanza come si sia sviluppato l'Is, a me interessano le condizioni per cui ha potuto farlo, cioè quelle condizioni per cui un gruppuscolo come tanti abbia potuto statualizzarsi in un territorio a cavallo fra due Stati, grazie a un disgregamento delle istituzioni pubbliche. E poi mi interessano le condizioni grazie alle quali il nuovo sedicente califfato abbia potuto svilupparsi, e cioè l'impossibilità occidentale di intervenire direttamente per due motivi: un impasse strategico tra le potenze e il rischio di reazioni negative nel mondo arabo.

 

Condizioni che derivano principalmente dall'invasione dell'Iraq nel 2003: il "caos iracheno", il ruolo degli ex baathisti, l'accentuato contrasto sunniti-sciiti in Iraq. Non capisco perché continui a ometterla, spostando tutte la attenzioni sulla gestione post-conflitto.

 

 

In realtà non la ometto: vedi secondo capoverso #1078. Trovo accettabile la scelta di avere fatto fuori Saddam; trovo inaccettabile (per varie ragioni) il modo in cui è stato gestito il post-Saddam, che con un minimo di buon senso in più non avrebbe prodotto gli sconquassi che ben sappiamo.

Il punto di non-ritorno dal mio pdv è come stata attuata la "pacificaziine", non la scelta di invadere o meno l'Iraq: immediatamente dopo la caduta di Saddam gli Americani avevano ancora la scelta di diverse strade davanti a loro: purtroppo hanno imboccato quella sbagliata che li ha portati via via ad un collo di bottiglia.

Ma quando sono entrati a Baghdad i giochi erano ancora aperti. Diciamo che si trovavano come noi il 3 giugno, alla fine del primo tempo... .uah

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In realtà non la ometto: vedi secondo capoverso #1078. Trovo accettabile la scelta di avere fatto fuori Saddam; trovo inaccettabile (per varie ragioni) il modo in cui è stato gestito il post-Saddam, che con un minimo di buon senso in più non avrebbe prodotto gli sconquassi che ben sappiamo. Il punto di non-ritorno dal mio pdv è come stata attuata la "pacificaziine", non la scelta di invadere o meno l'Iraq: immediatamente dopo la caduta di Saddam gli Americani avevano ancora la scelta di diverse strade davanti a loro: purtroppo hanno imboccato quella sbagliata che li ha portati via via ad un collo di bottiglia. Ma quando sono entrati a Baghdad i giochi erano ancora aperti. Diciamo che si trovavano come noi il 3 giugno, alla fine del primo tempo... .uah

 

Se volevi far fuori Saddam lo facevi nel 91, c'era il vento a favore. Nel 2003 no, si sapeva che sarebbe andata a finire così.

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Condizioni che derivano principalmente dall'invasione dell'Iraq nel 2003: il "caos iracheno", il ruolo degli ex baathisti, l'accentuato contrasto sunniti-sciiti in Iraq. Non capisco perché continui a ometterla, spostando tutte la attenzioni sulla gestione post-conflitto.

Magari derivassero da un solo evento, piuttosti da tredici secoli di rivalità settaria

 

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Ad alcune delle obiezioni che sollevi, laddove si parla di "responsabilità occidentali" nell'attuale situazione mediorientale, in pratica rispondo con il mio post #1075.

 

Personalmente ritengo che non sia stato un errore fare fuori Saddam (che neanche le monarchie del Golfo amavano particolarmente, se non in funzione anti-Iran), bensì che sia stato un errore distruggere dall'oggi al domani e senza alcuna compensazione l'apparato statale sunnita iracheno (esercito, polizia, amministrazione pubblica) pensando di sostituirlo con una nuova architettura a matrice sciita, nell'illusione che gli sciiti iracheni -per decenni vessati da Saddam- si scoprissero in grado di subentrare senza traumi alla gestione sunnita: cosa che non poteva assolutamente essere e sulla quale l'Iran ha pesantemente influito pro domo propria, soffiando sul fuoco della rivalsa sciita e contribuendo in maniera diretta a quella spirale di odi e vendette tra sciiti e sunniti in Iraq che si perpetua tutt'ora: l'Iran ad esempio ha inviato finanziamenti e consiglieri militari a Moqtada Sadr, nel 2004, contribuendo ad incendiare contro gli americani gli sciiti del sud-Iraq: quegli stessi sciiti sui quali gli americani avevano puntato per stabilizzare l'Iraq.

Quindi, sotto questo punto di vista, il fatto che Saddam sia stato eliminato con la scusa della provetta di antrace sventolata da Colin Powell all'Onu trovo sia del tutto irrilevante, perché per come la vedo io l'errore non è stato fare fuori Saddam, bensì rinunciare ai sunniti (ed a tutto il loro apparato) per stabilizzare l'Iraq nel post-Saddam, oltretutto senza riuscire ad ingraziarsi gli sciiti divenuti terreno di caccia dell'Iran.

 

Il vero punto di crisi è questo. Nel caos si sviluppa Daesh, come spinta endogena e per le ragioni che ho descritto nel #1075, sfruttando e strumentalizzando la frustrazione delle tribù sunnite e degli ex-saddamiti messi da parte. Però cos'era Daesh inizialmente? Era un gruppo di tagliagole che ad un certo punto con il nome di "Al Quaida in Iraq" (AQI) decide di affiliarsi ad Al Quaida casa-madre, senza però diventarne parte, senza sposarne completamente la strategia (Al Quaida ad esempio era contraria a colpire gli sciiti iracheni, cosa che invece il gruppo di Zarkawi ha fatto regolarmente come strategia del maggior caos) e senza ascoltare -o meglio facendo orecchie da mercante- agli ammonimenti che il nuovo leader di Al Quaida, Al Zawahiri subentrato a Bin Laden rivolge a Zarkawi.

Quindi AQI diventa di fatto incontrollabile anche dalla stessa Al Quaida e comincia a seguire una strategia propria (quella che la porterà poi ad espandersi in Siria): una strategia sulla quale gli Stati Uniti non hanno alcuna parte e sulla quale anche l'Arabia Saudita comincia a perdere presa.

Perché anche su questo punto credo ci sia parecchia confusione.

 

Le semplificazioni occidentali (ed una certa fissazione dualistica delle meccaniche universali) portano a voler sempre distinguere tra "bene" e "male", tra "buoni" e "cattivi", quindi a ritenere che vi sia tout-court uno "stato canaglia" chiamato "Arabia Saudita" biecamente intento a foraggiare i cattivi ai danni dei buoni, tra i quali finisce anche l'Iran. In realtà è una semplificazione manicheistica.

È probabile che l'Arabia Saudita (intesa come gruppo di governo) sia intervenuta a suo tempo per foraggiare AQI, sia per contrastare l'espansionismo iraniano in Iraq, sia per indebolire Al Quaida dall'interno, visto che Al Quaida ai Saud gliela aveva giurata fin dai tempi di Bin Laden, e che quindi vi sia stato un certo ruolo del gruppo dirigente saudita nello sviluppo di quello che poi sarebbe diventato Daesh/ISIS.

Però, nel momento in cui, Al Baghdadi decide di autoproclamarsi "califfo" di fatto puntando a diventare l'autorità religiosa di riferimento per tutti i credenti sovrastando quella degli stessi Saud, che -ricordiamolo- hanno il ruolo di "custodi" dei luoghi sacri dell'Islam, ecco che probabilmente per forza di cose, termina ogni possibile rapporto tra l'Isis e l'Arabia Saudita, visto nessun Saud può accettare la subordinazione di fatto ad un improvvisato califfo fai-da-te (al Baghdadi è letteralmente un signor nessuno, un morto di fame qualunque uscito dalla galera di Camp Bucca, che non può essere preso come pari o addirittura come superiore neanche dal più sfigato dei Saud)

 

Per questo dire che "l'Arabia Saudita canaglia arma l'Isis" trovo sia una semplificazione.

 

Altro aspetto: noi ci immaginiamo la famiglia reale saudita come un gruppetto di sceicchi intento a tessere le loro trame. Il che è senz'altro vero, ma bisogna aggiungere che si tratta di un "gruppetto" formato da migliaia di persone, tutte immensamente ricche, una parte delle quali rivestite di incarichi di governo ed un'altra parte invece no, con queste ultime occupate a combattere una guerra interna spietata ai primi per sostituirsi ad essi.

Quindi, una cosa è parlare di azioni "ufficiali" del governo saudita in termini di politica estera, accordi internazionali, attività politiche interne, ecc, ed altra cosa sono le manovre "private" di elementi, magari pure riconducibili alla cerchia dei Saud ma che con la politica ufficiale del Regno non ha nulla a che fare, in quanto riconducibili al ginepraio incintrollabile di fondazioni caritatevoli private, gestione delle elemosine ed altro, messe in atto anche in contrasto con le scelte del Regno.

 

Una parola sull'Iran. L'Iran non combatte l'Isis: l'Iran in M.O. segue una propria agenda politico-strategica che punta a costituire una "mezzaluna sciita" dal Libano al golfo persico, passando per la Siria e l'Iraq; persegue quindi i propri obiettivi che talvolta si trovano anche a confliggere con l'Isis ma per la maggior parte no, in quanto l'Isis è un ulteriore elemento di utile frattura nel mondo sunnita, una scheggia impazzita produttrice di caos, funzionale a mantenere un fossato di diffidenza tra l'Occidente (soprattutto la sua opinione pubblica e parte delle forze politiche) e le principali potenze sunnite della regione (leggasi Arabia Saudita e monarchie del Golfo).

 

Diffidenza che, in un modo o nell'altro gioca a favore di Teheran.

Guarda sull'analisi post-Saddam posso anche essere d'accordo con te, però io non so come fai a dire che la guerra in Iraq è stata giusta.

E' stata la causa scatenante di tutto, Daesh prolifera nel caos, gli Usa hanno procurato il caos muovendo una guerra con prove FALSE,forse non ci rendiamo conto della gravità della cosa, solo per questo tutta l'amministrazione dell'epoca dovrebbe essere processata e messa davanti alle proprie responsabilità(!!!) perchè se esiste un diritto internazionale dovrebbe valere per tutti non è che se ti chiami Usa o GB puoi crederti al di sopra del diritto!! Sono cose talmente gravi che non si può neanche iniziare un discorso senza prima condannarle fortemente, senza se e senza ma.

Inoltre, si trattasse di un singolo caso isolato non avrebbe comunque alcuna giustificazione, ma almeno si potrebbe parlare di errore, di valutazioni sbagliate e quello che vuoi, ma neanche 10 anni dopo sto casino hanno combinato la stessa cosa con Gheddafi dimostrando di non aver imparato un cavolo dagli errori passati ma anzi è palese che in queste situazioni ci sguazzano.Dobbiamo giustificare anche qua??? Bisogna dargli ragione a prescindere perchè si trovano nella nostra stessa metà di mondo benestante??? Secondo me qualsiasi discorso sulla situazione attuale non può prescindere da un'analisi seria e non di parte a questi fatti.

 

Sulla questione sunniti vs sciiti io sto tutta la vita con i secondi, se vogliamo dare la colpa all'Iran di aver soffiato sul fuoco per un suo tornaconto personale allora che cosa dobbiamo dire di Arabia Saudita, Turchia e paesi del golfo??

Per quanto riguarda il discorso sui Saud non credo che ci sia una sola persona al mondo che possa spiegare tutti gli intrecci,magheggi, intrallazzi che hanno, penso che siano gli esseri più spregevoli e ipocriti dell'intero pianeta Terra e i recenti attentati a Theran dimostrano bene come siano legati a doppio filo con Daesh.

 

PS: Mannaggia a te che mi hai ricordato il 3 giugno!!! :( :( :(

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Magari derivassero da un solo evento, piuttosti da tredici secoli di rivalità settaria

Vabbè, non posso scrivere un trattato sefz chiamiamolo detonatore o punto di rottura della faglia

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Guarda sull'analisi post-Saddam posso anche essere d'accordo con te, però io non so come fai a dire che la guerra in Iraq è stata giusta.

E' stata la causa scatenante di tutto, Daesh prolifera nel caos, gli Usa hanno procurato il caos muovendo una guerra con prove FALSE,forse non ci rendiamo conto della gravità della cosa, solo per questo tutta l'amministrazione dell'epoca dovrebbe essere processata e messa davanti alle proprie responsabilità(!!!) perchè se esiste un diritto internazionale dovrebbe valere per tutti non è che se ti chiami Usa o GB puoi crederti al di sopra del diritto!! Sono cose talmente gravi che non si può neanche iniziare un discorso senza prima condannarle fortemente, senza se e senza ma.

Inoltre, si trattasse di un singolo caso isolato non avrebbe comunque alcuna giustificazione, ma almeno si potrebbe parlare di errore, di valutazioni sbagliate e quello che vuoi, ma neanche 10 anni dopo sto casino hanno combinato la stessa cosa con Gheddafi dimostrando di non aver imparato un cavolo dagli errori passati ma anzi è palese che in queste situazioni ci sguazzano.Dobbiamo giustificare anche qua??? Bisogna dargli ragione a prescindere perchè si trovano nella nostra stessa metà di mondo benestante??? Secondo me qualsiasi discorso sulla situazione attuale non può prescindere da un'analisi seria e non di parte a questi fatti.

 

Sulla questione sunniti vs sciiti io sto tutta la vita con i secondi, se vogliamo dare la colpa all'Iran di aver soffiato sul fuoco per un suo tornaconto personale allora che cosa dobbiamo dire di Arabia Saudita, Turchia e paesi del golfo??

Per quanto riguarda il discorso sui Saud non credo che ci sia una sola persona al mondo che possa spiegare tutti gli intrecci,magheggi, intrallazzi che hanno, penso che siano gli esseri più spregevoli e ipocriti dell'intero pianeta Terra e i recenti attentati a Theran dimostrano bene come siano legati a doppio filo con Daesh.

 

PS: Mannaggia a te che mi hai ricordato il 3 giugno!!! :( :( :(

 

Una guerra tendo a non giudicarla mai in termini di "diritto", perché altrimenti si entra in un ginepraio da cui è impossibile uscire dove tutti possono aver ragione così come nessuno; e tantomeno la giudico in termini morali, perché sarebbe ancora peggio, visto che "morale" e "guerra" sono ossimori.

 

 

Tendo invece a giudicarla in termini di risultati: e quella contro Saddam è stata una buona guerra, ottimamente combattuta e ben guidata (anche se non come quella del '91), che aveva (finalmente) uno scopo preciso vecchia maniera (la rimozione di Saddam) senza tante belinate umanitarie stile Kosovo o Libia, e l'ha raggiunto in due settimane, che aveva un piano e ha funzionato (anche che se non tutto è filato esattamente liscio).

La guerra quindi è stata un successo.

Poi è venuta la pace, o meglio la pacificazione: e questa è stata un disastro.

Ma sono due fasi separate, del tutto diverse l'una dall'altra (anche se la percezione collettiva tende a farne una cosa unica), che presentavano scenari diversi, problemi diversi e protagonisti diversi e che quindi avrebbero dovuto essere affrontate con metodi, mezzi e personale diversi: voglio dire, un Abrams lo utilizzo per eliminare un bersaglio nemico su terreno aperto, ma non lo posso utilizzare per fare fuori un cecchino sul tetto di un palazzo in città, a meno che non abbia deciso di demolire quel palazzo con tutti quelli che ci abitano dentro strafottendomene delle vittime collaterali; eppure, durante la "pacificazione" sono successe cose di questo genere, proprio perché in quel momento la guerra era cambiata completamente ma da parte americana nessuno se ne era accorto, oppure se anche se ne erano accorti, avevano sottovalutato il problema.

Per questo io tengo separati i due scenari, dando due valutazioni diverse.

È un po' come dire: il pranzo di Natale è stato ottimo ed abbondante, ma al momento di aprire i regali ho litigato con i parenti. Ho fatto male ad andarci? È stato un fallimento? È l'ultima volta che ci vado?

 

Poi c'è il giudizio politico, che per darlo bisognerebbe conoscere i retroscena che hanno portato a certe decisioni piuttosto che ad altre, ma che però non può prescindere dal contesto nel quale l'attacco all'Iraq è avvenuto: vale a dire in pieno shock post-traumatico da 11/9 (in fondo erano passati solo 18 mesi da un "evento totale" che ha cambiato la storia del mondo tanto quanto la caduta del Muro o Hiroshima) e con un'amministrazione americana che -comprensibilmente dal suo punto di vista- si è sentita rivestita di una specie di missione divina tipo Giudizio di Dio, oltre che dell'opportunità di togliersi dai piedi, a buon mercato, un vecchio nemico portando a termine un lavoro lasciato a metà dieci anni prima.

Scelta rischiosa? Senza dubbio. Evitabile? Probabilmente si, a quell'epoca alternative ce n'erano ancora. Sbagliata? Non necessariamente, perché ragionare con il senno di poi è sempre molto facile al contrario di quando le decisioni si devono prendere a tamburo battente valutando le circostanze e gli umori del momento. Senza contare che se la pacificazione fosse andata in un altro modo -e non ci voleva molto- a quest'ora staremmo parlando di un grande successo, anziché di un mezzo fallimento.

 

 

L'Iran fa il suo gioco. Ecco appunto, il suo gioco. Di sicuro non fa il nostro o sta dalla nostra parte come certa propaganda vuole raccontarci. Fa il suo sporco gioco come tutti gli altri, ed il solo fatto che lo faccia non contribuisce a semplificare le cose. L'Iran, come tutti gli altri attori sulla scena non è parte della soluzione bensì parte del problema.

Ma per un certo modo di pensare ciò che è valido per Turchia/Stati Uniti/paesi del Golfo/ecc non è valido per Russia e Iran. E questo per me è inaccettabile.

 

Quanto alla Libia, c'è stato un forte zampino francese, nell'ambito di un discorso che coinvolgeva anche l'Onu ed un molto più defilato e riluttante impegno americano, al contrario dell'Iraq dove a muoversi sono stati gli USA senza ombrello ONU (che è arrivato solo dopo): quindi, anche solo per questo ritengo imparagonabili le due cose.

In Iraq gli Usa hanno voluto la guerra per questioni di politica nazionale, l'hanno progettata (bene), eseguita e portata a termine praticamente da soli, con un po' di inglesi ed australiani di supporto.

In Libia gli Usa si sono accodati più o meno di malavoglia ad una armata simil-brancaleone nell'ambito di un discorso Onu di no-fly zone, privo di uno scopo preciso, con intenti vaghi ed attuato male e senza convinzione: una guerra-non-guerra, questa si, senza capo né coda.

 

Due cose molto diverse a mio modo di vedere.

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Non capisco come mai non ricevo le notifiche quando mi rispondi...

Tornando al discorso ti spiego come la penso...

 

Una guerra tendo a non giudicarla mai in termini di "diritto", perché altrimenti si entra in un ginepraio da cui è impossibile uscire dove tutti possono aver ragione così come nessuno; e tantomeno la giudico in termini morali, perché sarebbe ancora peggio, visto che "morale" e "guerra" sono ossimori.

 

Nessun ginepraio a mio modo di vedere, nel caso specifico da wikipedia

 

[..] alcuni esponenti dell'amministrazione statunitense specularono sul coinvolgimento di Saddam Hussein, il presidente iracheno, con al-Qāʿida.[128] Questi sospetti si rivelarono successivamente infondati, ma questa associazione contribuì a far accettare all'opinione pubblica l'invasione dell'Iraq del 2003.[..]

[..]L'obiettivo principale dell'invasione era la deposizione di Saddam Hussein, già da tempo visto con ostilità dagli Stati Uniti per vari motivi: timori (poi rivelatisi infondati) su un suo ipotetico tentativo di dotarsi di armi di distruzione di massa, il suo presunto appoggio al terrorismo islamista e l'oppressione dei cittadini iracheni da parte di una dittatura sanguinaria. [..]

 

E' chiaro che sono state inventate delle prove per motivare l'aggressione all'iraq e altre per rabbonire l'opinione pubblica segno che l'amministrazione Bush sapeva benissimo di star muovendo una guerra sporchissima. Non sono un avvocato ma credo che per il diritto internazionale possa definirsi un'aggressione ingiustificata. Iniziare ad ammettere questo credo che sia un buon punto di partenza per intavolare un discorso costruttivo che cosa ne pensi??

 

Tendo invece a giudicarla in termini di risultati: e quella contro Saddam è stata una buona guerra, ottimamente combattuta e ben guidata (anche se non come quella del '91), che aveva (finalmente) uno scopo preciso vecchia maniera (la rimozione di Saddam) senza tante belinate umanitarie stile Kosovo o Libia, e l'ha raggiunto in due settimane, che aveva un piano e ha funzionato (anche che se non tutto è filato esattamente liscio).

La guerra quindi è stata un successo.

Poi è venuta la pace, o meglio la pacificazione: e questa è stata un disastro.

Ma sono due fasi separate, del tutto diverse l'una dall'altra (anche se la percezione collettiva tende a farne una cosa unica), che presentavano scenari diversi, problemi diversi e protagonisti diversi e che quindi avrebbero dovuto essere affrontate con metodi, mezzi e personale diversi: voglio dire, un Abrams lo utilizzo per eliminare un bersaglio nemico su terreno aperto, ma non lo posso utilizzare per fare fuori un cecchino sul tetto di un palazzo in città, a meno che non abbia deciso di demolire quel palazzo con tutti quelli che ci abitano dentro strafottendomene delle vittime collaterali; eppure, durante la "pacificazione" sono successe cose di questo genere, proprio perché in quel momento la guerra era cambiata completamente ma da parte americana nessuno se ne era accorto, oppure se anche se ne erano accorti, avevano sottovalutato il problema.

Per questo io tengo separati i due scenari, dando due valutazioni diverse.

È un po' come dire: il pranzo di Natale è stato ottimo ed abbondante, ma al momento di aprire i regali ho litigato con i parenti. Ho fatto male ad andarci? È stato un fallimento? È l'ultima volta che ci vado?

 

Poi c'è il giudizio politico, che per darlo bisognerebbe conoscere i retroscena che hanno portato a certe decisioni piuttosto che ad altre, ma che però non può prescindere dal contesto nel quale l'attacco all'Iraq è avvenuto: vale a dire in pieno shock post-traumatico da 11/9 (in fondo erano passati solo 18 mesi da un "evento totale" che ha cambiato la storia del mondo tanto quanto la caduta del Muro o Hiroshima) e con un'amministrazione americana che -comprensibilmente dal suo punto di vista- si è sentita rivestita di una specie di missione divina tipo Giudizio di Dio, oltre che dell'opportunità di togliersi dai piedi, a buon mercato, un vecchio nemico portando a termine un lavoro lasciato a metà dieci anni prima.

Scelta rischiosa? Senza dubbio. Evitabile? Probabilmente si, a quell'epoca alternative ce n'erano ancora. Sbagliata? Non necessariamente, perché ragionare con il senno di poi è sempre molto facile al contrario di quando le decisioni si devono prendere a tamburo battente valutando le circostanze e gli umori del momento. Senza contare che se la pacificazione fosse andata in un altro modo -e non ci voleva molto- a quest'ora staremmo parlando di un grande successo, anziché di un mezzo fallimento.

 

 

Ok, scindere i vari aspetti aiuta ad analizzare meglio i fatti e tu li hai analizzati bene.Andando a valutare i fatti abbiamo:

-Una guerra vinta bene. ok ma la superiorità era talmente schiacciante che ai miei occhi la cosa non ha quasi importanza talmente ovvia.

-Una pacificazione post guerra come dici bene anche tu disastrosa.

-A livello politico è stato eliminato Saddam Hussein che stava sul *,ok. E poi? E' stata spianata la strada agli sciiti e all'Iran di conseguenza. Ti sembra una vittoria?A me non sembra perchè dell'Iran sappiamo bene che odia Usa e Israele più di ogni altra cosa al mondo.

 

Quindi ricapitolando il mio giudizio è che è stata una guerra immotivata e che si è rivelata un autentico disastro tranne che sotto l'aspetto militare.Condividi quello che dico?

 

L'Iran fa il suo gioco. Ecco appunto, il suo gioco. Di sicuro non fa il nostro o sta dalla nostra parte come certa propaganda vuole raccontarci. Fa il suo sporco gioco come tutti gli altri, ed il solo fatto che lo faccia non contribuisce a semplificare le cose. L'Iran, come tutti gli altri attori sulla scena non è parte della soluzione bensì parte del problema.

Ma per un certo modo di pensare ciò che è valido per Turchia/Stati Uniti/paesi del Golfo/ecc non è valido per Russia e Iran. E questo per me è inaccettabile.

Sono d'accordo con te, io infatti prima volevo intendere che vedo molto più di buon occhio gli sciiti perchè vedo coerenza nelle loro scelte, hanno degli obiettivi e fanno il necessario per raggiungerli a differenza dei paesi sunniti che sono delle schegge impazzite perchè hanno miliardi di divisioni e contrasti fra di loro.

E' vero il discorso "divide et impera" ma cosi facendo ci siamo portati la guerra a casa nostra.

 

Quanto alla Libia, c'è stato un forte zampino francese, nell'ambito di un discorso che coinvolgeva anche l'Onu ed un molto più defilato e riluttante impegno americano, al contrario dell'Iraq dove a muoversi sono stati gli USA senza ombrello ONU (che è arrivato solo dopo): quindi, anche solo per questo ritengo imparagonabili le due cose.

In Iraq gli Usa hanno voluto la guerra per questioni di politica nazionale, l'hanno progettata (bene), eseguita e portata a termine praticamente da soli, con un po' di inglesi ed australiani di supporto.

In Libia gli Usa si sono accodati più o meno di malavoglia ad una armata simil-brancaleone nell'ambito di un discorso Onu di no-fly zone, privo di uno scopo preciso, con intenti vaghi ed attuato male e senza convinzione: una guerra-non-guerra, questa si, senza capo né coda.

 

Due cose molto diverse a mio modo di vedere.

Si qua sono d'accordissimo con te che il dito è da puntare contro i francesi.Certo però vista l'esperienza in Iraq era lecito aspettarsi un gestione post guerra migliore, invece....

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Discorso sostanzialmente condivisibile, nel complesso.

Più nello specifico:

 

 

E' chiaro che sono state inventate delle prove per motivare l'aggressione all'iraq e altre per rabbonire l'opinione pubblica segno che l'amministrazione Bush sapeva benissimo di star muovendo una guerra sporchissima. Non sono un avvocato ma credo che per il diritto internazionale possa definirsi un'aggressione ingiustificata. Iniziare ad ammettere questo credo che sia un buon punto di partenza per intavolare un discorso costruttivo che cosa ne pensi??

 

di solito evito di inoltrarmi sul terreno della "legittimità" o meno di un conflitto, perché di fatto ogni guerra, anche la più "giustificabile" pone termine in un modo o nell'altro allo stato di legalità internazionale, quantomeno prendendo come riferimento l'Art.1 della Carta dell'ONU. Quindi trovo che discuterne sia un esercizio abbastanza inutile, dato che comunque quell'articolo nella sostanza è destinata a rimanere una teorica dichiarazione di intenti, molto nobile ma astratta almeno come il quinto dei Dieci Comandamenti.

Trovo anche sommamente ridicole le "giustificazioni" che saltano fuori ogni tanto, tipo "guerra etica", "guerra giusta", "guerra umanitaria"... tutte fesserie retoriche buone solo per darsi un paravento morale: si tratta di guerra e basta, ovvero la prosecuzione della politica con altri mezzi, per dirla con Clausewitz.

Semplicemente, gli americani in Iraq avevano un obiettivo politico e la fialetta di antrace è stato un semplice paravento, così come un semplice paravento è stato il referendum pro-russo in Crimea per nascondere l'obiettivo politico di Mosca sulla penisola.

Personalmente non sono un pacifista e considero la guerra un mezzo come un altro (anche se estremo, e l'ultimo cui fare ricorso per varie ragioni): ma non mi piace neanche l'ipocrisia di chi prova a nascondere la scelta di utilizzare lo strumento militare dietro formulette retoriche insulse.

 

 

Ok, scindere i vari aspetti aiuta ad analizzare meglio i fatti e tu li hai analizzati bene.Andando a valutare i fatti abbiamo:

-Una guerra vinta bene. ok ma la superiorità era talmente schiacciante che ai miei occhi la cosa non ha quasi importanza talmente ovvia.

-Una pacificazione post guerra come dici bene anche tu disastrosa.

-A livello politico è stato eliminato Saddam Hussein che stava sul *,ok. E poi? E' stata spianata la strada agli sciiti e all'Iran di conseguenza. Ti sembra una vittoria?A me non sembra perchè dell'Iran sappiamo bene che odia Usa e Israele più di ogni altra cosa al mondo.

 

Quindi ricapitolando il mio giudizio è che è stata una guerra immotivata e che si è rivelata un autentico disastro tranne che sotto l'aspetto militare.Condividi quello che dico?

 

sostanzialmente si. Solo che essendo stata il frutto di un calcoli politico (o magari di un azzardo), non posso definirla immotivata.

Poi se mi chiedi se sarebbe stato meglio non combatterla, col senno di poi ti rispondo che probabilmente sarebbe stato più conveniente sbarazzarsi di Saddam in altro modo. Di certo, anche col senno di allora, avrei comunque impostato la pacificazione in maniera del tutto diversa

 

Sono d'accordo con te, io infatti prima volevo intendere che vedo molto più di buon occhio gli sciiti perchè vedo coerenza nelle loro scelte, hanno degli obiettivi e fanno il necessario per raggiungerli a differenza dei paesi sunniti che sono delle schegge impazzite perchè hanno miliardi di divisioni e contrasti fra di loro.

E' vero il discorso "divide et impera" ma cosi facendo ci siamo portati la guerra a casa nostra.

 

certamente giusto.

Gioca a favore degli sciiti il fatto che l'Iran sia l'unica potenza sciita dell'Islam e che quindi possa portare avanti una politica in coerenza unicamente con sé stessa (Hezbollah conta come il due di picche, e gli alawiti siriani sono sempre stati atipici nella loro laicità socialista, almeno fino alla guerra civile), mentre i sunniti sono divisi in diverse pseudopotenze, ciascuna con una propria agenda politica.

 

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di solito evito di inoltrarmi sul terreno della "legittimità" o meno di un conflitto, perché di fatto ogni guerra, anche la più "giustificabile" pone termine in un modo o nell'altro allo stato di legalità internazionale, quantomeno prendendo come riferimento l'Art.1 della Carta dell'ONU. Quindi trovo che discuterne sia un esercizio abbastanza inutile, dato che comunque quell'articolo nella sostanza è destinata a rimanere una teorica dichiarazione di intenti, molto nobile ma astratta almeno come il quinto dei Dieci Comandamenti.

Trovo anche sommamente ridicole le "giustificazioni" che saltano fuori ogni tanto, tipo "guerra etica", "guerra giusta", "guerra umanitaria"... tutte fesserie retoriche buone solo per darsi un paravento morale: si tratta di guerra e basta, ovvero la prosecuzione della politica con altri mezzi, per dirla con Clausewitz.

Ciao!

Allora sono d'accordo che sia abbastanza inutile discutere riguardo la legittimità o meno della guerra e soprattutto sulla moralità, io infatti il discorso che ti ho fatto era riguardo al diritto perchè infondo in ogni rapporto che sia tra persone, società o entità statuali devono esserci delle regole. Altrimenti è un giungla, cazo! (semicit. :d )

Il mio obiettivo era soltanto trovare dei punti d'intesa con te in modo da svilupparci sopra un discorso che avesse delle basi condivise da entrambi.

 

Semplicemente, gli americani in Iraq avevano un obiettivo politico e la fialetta di antrace è stato un semplice paravento, così come un semplice paravento è stato il referendum pro-russo in Crimea per nascondere l'obiettivo politico di Mosca sulla penisola.

Personalmente non sono un pacifista e considero la guerra un mezzo come un altro (anche se estremo, e l'ultimo cui fare ricorso per varie ragioni): ma non mi piace neanche l'ipocrisia di chi prova a nascondere la scelta di utilizzare lo strumento militare dietro formulette retoriche insulse.

Questa è l'unica cosa su cui non sono d'accordo con te perchè, lasciando da parte il giusto o sbagliato della situazione dell'Ucraina di cui se vuoi ne possiamo approfondire a parte, secondo me sbagli a mettere le due cose sullo stesso piano per il semplice fatto che gli Usa per le porcherie fatte hanno ricevuto una pacca sulla spalla e amici come prima mentre la Russia è stata sanzionata.

Questo secondo me dovrebbe far riflettere.

 

Ci tengo a sottolineare una cosa, anche se abbiamo idee diverse io non voglio convincerti di nulla, vorrei che il discorso si sviluppasse senza preconcetti perchè se ragioniamo a "blocchi contrapposti", santificando una parte e demonizzando l'altra, credo che non porti da nessuna parte.

 

sostanzialmente si. Solo che essendo stata il frutto di un calcoli politico (o magari di un azzardo), non posso definirla immotivata.

Poi se mi chiedi se sarebbe stato meglio non combatterla, col senno di poi ti rispondo che probabilmente sarebbe stato più conveniente sbarazzarsi di Saddam in altro modo. Di certo, anche col senno di allora, avrei comunque impostato la pacificazione in maniera del tutto diversa

Ottimo,vedo che abbiamo trovato dei punti d'intesa.

Ora ti faccio una domanda, visto che io su molte cose trovo delle similitudini tra la guerra in Iraq del 2003 e l'attuale guerra in Siria, vorrei sapere secondo te c'è stato un ripetersi di scelte sbagliate?Se si, perchè?

 

certamente giusto.

Gioca a favore degli sciiti il fatto che l'Iran sia l'unica potenza sciita dell'Islam e che quindi possa portare avanti una politica in coerenza unicamente con sé stessa (Hezbollah conta come il due di picche, e gli alawiti siriani sono sempre stati atipici nella loro laicità socialista, almeno fino alla guerra civile), mentre i sunniti sono divisi in diverse pseudopotenze, ciascuna con una propria agenda politica.

La penso esattamente come te e ho ben poco da aggiungere a quello che hai detto.

Ci tengo solo a fare solo due eccezioni al minestrone degli stati sunniti che sono Giordania e Marocco che secondo me sono gli unici 2 stati governati con saggezza e coerenza a differenza dei vari buffoni di sceicchi buoni solo a portare distruzione e morte ovunque rivolgano il loro sguardo.

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Ottimo,vedo che abbiamo trovato dei punti d'intesa.

Ora ti faccio una domanda, visto che io su molte cose trovo delle similitudini tra la guerra in Iraq del 2003 e l'attuale guerra in Siria, vorrei sapere secondo te c'è stato un ripetersi di scelte sbagliate?Se si, perchè?

 

 

 

Mi pare siano situazioni molto diverse. Ciò che le lega assieme è quella specie di fil-rouge che da Al Zarkawi porta fino ad Al Baghdadi e che dà una sensazione di causa-effetto tra l'invasione dell'Iraq e la Guerra civile in Siria: che se pure un rapporto di parentela tra i due eventi esiste, è oramai di parentela assai lontana, visto che nella guerra di Siria sono entrate in gioco una infinità di variabili diverse del tutto assenti in Iraq. Parlo ad esempio dell'allargamento internazionale del conflitto, che da crisi locale ha assunto proporzioni di crisi globale, per via dell'intervento di attori esterni in misura decisamente superiore alla crisi irachena: come se la Siria ad un certo punto fosse diventata il catalizzatore di tensioni esterne al teatro siriano che nel teatro siriano hanno trovato il loro corto circuito definitivo (confronto est-ovest, Crimea, tensioni etno-religiose tra sciiti e sunniti, lotta egemonica tra Arabia e Iran, neo-ottomanesimo turco, jihadismo millenaristico, rivendicazioni curde, scontro di civiltà, tensioni migratorie, vie del petrolio e della seta...). Insomma, veramente troppo di tutto per ridurlo ad una mera, automatica, semplificazione causa-effetto tra Iraq e Siria.

Per questo credo sia difficile parlare di scelte sbagliate: sbagliate in rapporto a che cosa, visto che qualunque opzione in quella parte del mondo può avere conseguenze gravissime?

Per dire: il tanto vituperato Obama, al quale una certa parte imputa la crisi siriana è in realtà colpevole, dal mio pdv, di negligenza passiva per essersi voluto estraniare dalla crisi siriana, per non avere cioè voluto scegliere una "strategia siriana" precisa che potesse essere portata fino in fondo, e di avere invece oscillato tra il disinteresse totale dell'ultima parte del suo secondo mandato, i bluff da linea rossa della prima parte, l'appoggio ondivago a questo o a quello ed il rimescolamento delle carte tra ex-alleati ed ex-nemici: con il risultato di avere creato ulteriore confusione in una situazione già maledettamente incasinata.

In questo senso, credo che in Siria Obama sia colpevole non per ciò che ha fatto, bensì per ciò che non ha voluto fare, forse frenato da una (comprensibile) "sindrome irachena" post-traumatica.

In questo modo siamo quindi passati da un Bush combattente entusiasta quasi millenaristico di una "guerra infinita" ad un Obama guerriero riluttante: ed in entrambi i casi, sia l'uno che ha fatto sia l'altro che non ha fatto, sono stati accusati di avere agito in modo sbagliato...

 

Quindi, per rispondere alla tua domanda, bisogna prima capire in rapporto a quale dinamica una scelta nella questione siriana si debba considerare giusta o sbagliata.

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Quindi, per rispondere alla tua domanda, bisogna prima capire in rapporto a quale dinamica una scelta nella questione siriana si debba considerare giusta o sbagliata.

Ciao, la domanda molto semplicemente è: perchè si è scelto di foraggiare gruppi ribelli su cui non avevano nessun controllo? Contro un dittatore che, per quanto sanguinario, teneva sotto controllo la situazione che senza di lui si poteva facilmente prevedere avrebbe innescato una serie di reazioni potenzialmente disastrose???Secondo te avessero lasciato fare ad Assad oggi la situazione quale sarebbe???

 

Inoltre ti ripeto la domanda del precedente post a cui non mi hai risposto, perchè gli Usa non sono stati sanzionati per la guerra in Iraq e la Russia invece si per la questione ucraina?

Eppure dal mio punto di vista la seconda ha motivazioni molto più valide della prima..

 

PS: Nei prossimi giorni sarò fuori per lavoro, sarò felice di continuare la conversazione con te al mio ritorno, verso fine mese.Ciao! .salve

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Ciao, la domanda molto semplicemente è: perchè si è scelto di foraggiare gruppi ribelli su cui non avevano nessun controllo? Contro un dittatore che, per quanto sanguinario, teneva sotto controllo la situazione che senza di lui si poteva facilmente prevedere avrebbe innescato una serie di reazioni potenzialmente disastrose???Secondo te avessero lasciato fare ad Assad oggi la situazione quale sarebbe???

 

All'inizio della crisi, di fronte ad una protesta popolare che dilagava e che minacciava di travolgerlo, Assad aveva una sola possibilità: sparigliare il tavolo allargando il conflitto, così da trasformare una crisi politica locale in un conflitto globale irrisolvibile, nel quale il suo regime avrebbe avuto buon gioco nel ritagliarsi il ruolo di "normalizzatore". Ed è così che è andata.

La prima mossa di Assad è stata quindi quella di spostare la fisionomia della crisi da politica a etno-religiosa, in modo che il suo regime -indiscutibilmente laico- venisse percepito (soprattutto in Occidente) non più come l'oppressore politico che era di una assoluta maggioranza di siriani (i sunniti), bensì come "male minore" rispetto a quella parte dell'opposizione che si era rivestita di panni religiosi islamisti.

Da qui la scelta di Assad di giocarsi due spregiudicate mosse del cavallo ispirate al vecchio principio del "tanto peggio, tanto meglio":

 

1) la liberazione via amnistia ad inizio rivolta di centinaia se non migliaia di jihadisti di tutte le risme detenuti nelle carceri del regime, i quali, una volta tornati in libertà confluirono in massa tanto nello Stato Islamico che si stava formato nell'est della Siria contribuendo al suo rafforzamento, quanto nei vari gruppuscoli dell'opposizione di impronta islamista contribuendo così ad accentuare la caratterizzazione religiosa radicale complessiva della protesta anti-Assad e sfumando invece quella laico democratica o islamico-moderata. Che era l'obiettivo principale di Assad: spostare la protesta sul terreno etno-religioso e per derivazione sul confronto (vincente) tra la (presunta) civiltà laica del regime e la barbarie jihadista.

 

2) l'abbandono fisico da parte dell'esercito di Assad di tutta la Siria centro-orientale, con la scusa di rafforzare la "Siria che conta" (la fascia occidentale, la zona alawita, il corridoio Damasco-Homs-Aleppo), ma con il segreto obiettivo di lasciare via libera all'ISIS, consentendogli così di rafforzarsi, di costruirsi uno Stato e di inserirsi quale terzo incomodo destabilizzante, tra il regime di Assad sotto attacco e l'opposizione non islamista la quale, presa tra due fuochi ne sarebbe uscita pesantemente indebolita, con la sola alternativa -per evitare di essere travolta- di consegnarsi armi e bagagli ai gruppi islamisti anti-Assad (al Nusra ed altri). Con una ulteriore caratterizzazione religiosa islamista di tutta l'opposizione e conseguente crescita della diffidenza occidentale.

 

 

L'allargamento del conflitto è stata una mossa disperata ma efficace di Assad, che ha giocato abilmente sulle incertezze occidentali nei confronti di una parte dell'opposizione: è ovvio quindi, che in una situazione del genere in cui cominciava a delinearsi il disegno egemonico iraniano in Siria, (dapprima con il solo intervento di Hezbollah, e poi quando anche questi non furono più sufficienti anche con l'ingresso diretto di pasdaran e miliziani sciiti iracheni e afghani), molti gruppi islamisti sunniti siriani abbiano ricevuto supporto da parte delle varie monarchie del Golfo, così come è inevitabile che certi gruppi, magari inizialmente moderati e considerati affidabili dall'Occidente (e quindi beneficiari di armi ed aiuti), si siano poi radicalizzati sposando la causa islamista: o così oppure scomparire dalla scena.

Da qui anche le incertezze di Obama e la sua politica ondivaga stretta tra intervento, non-intervento e supporto indiretto a quei gruppi dell'opposizione giudicati affidabili.

Quale ulteriore elemento di incertezza, pare vi sia stata anche, all'interno dell'establishment americano, una certa differenza di vedute tra una "linea-Cia", propensa ad appoggiare gruppi selezionati dell'opposizione non islamista ed una "linea US Army/Dipartimento della Difesa", che puntava invece a servirsi dei curdi. Per un lungo periodo sarebbe prevalsa la "linea Cia" e solo verso la fine, dopo l'intervento diretto dei russi circa due anni fa, la decisione di puntare sui curdi anche a costo di problematizzare i rapporti con la Turchia (e guarda caso, dopo essere stati ignorati per anni dal regime siriano anche i curdi, prossimi alla conquista di Raqqa, sono stati adesso definiti "terroristi" dall'ultima versione della narrativa propagandistica assadiana).

 

 

 

Per concludere: Assad non aveva affatto il controllo della situazione in Siria, ma lo stava perdendo rapidamente. Per evitare il crollo scelse di radicalizzare il conflitto allargandolo a chiunque gli offrisse un aiuto: l'Iran in primo luogo. È ovvio, che davanti alle manovre iraniane in uno stato come la Siria che è -ricordiamolo sempre- ad assoluta maggioranza sunnita, le monarchie (sunnite) del Golfo abbiano scelto di appoggiare chiunque, tra i sunniti siriani, potesse rappresentare un ostacolo ad Assad e soprattutto ai suoi amici iraniani.

 

 

Inoltre ti ripeto la domanda del precedente post a cui non mi hai risposto, perchè gli Usa non sono stati sanzionati per la guerra in Iraq e la Russia invece si per la questione ucraina?

Eppure dal mio punto di vista la seconda ha motivazioni molto più valide della prima..

 

come ho già detto, il tema della legalità o meno di un conflitto è un terreno su cui non mi avventuro perché non porta da nessuna parte.

Comunque, le sanzioni alla Russia sono state comminate a Mosca dal Consiglio Europeo (http://www.consilium.europa.eu/it/policies/sanctions/ukraine-crisis/history-ukraine-crisis/ ) a fronte di un atto ritenuto illegittimo (l'annessione della Crimea), mentre l'attacco americano all'Iraq ha avuto come base di legalità la risoluzione 1441 dell'ONU, integrata dalle risoluzioni 678 e 687.

Quindi: in primo luogo si parla di due piani politici non omogenei (UE e ONU), per cui le due cose non possono essere considerate ragionevolmente mescolabili, basandosi esse (almeno andando a buon senso) su strutture normative diverse tra loro, oltre che su diverse valutazioni politiche; ergo, per poter fare un confronto serio e non demagogico (ed eventualmente individuare una logica da "figli e figliastri" - che è ciò cui punta la tua domanda) bisognerebbe almeno che le due situazioni fossero minimamente omogenee: cosa che evidentemente non sono.

Dopodiché gli USA e la GB essendo scudate dalle suddette risoluzioni, si sarebbero comunque mosse, a differenza della Russia, su un piano di legalità formale internazionalmente riconosciuta; che poi questo piano di legalità sia stato messo in discussione e sia stato oggetto, senza venirne a capo, di millemila polemiche ed interpretazioni, è materia che non mi appassiona neanche un po'.

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.uhm Situazione in Siria a metà Giugno :

 

 

 

June-Map.jpg

 

 

Nel mese di Giugno , la provincia di Raqqa è stata teatro di intensi combattimenti tra l'ISIL contro Curdi e SDF (siriane forze democratiche ) che stanno liberando il capoluogo .

 

Nel frattempo, ad ovest di Raqqa Città, Forze Tiger siriana dell'esercito arabo-siriano( SAA) hanno liberato una grande quantità di territorio lungo l'asse Aleppo-Raqqa, tra cui l'importante sito di Rusafa Oil Field e Rusafa Junction.

 

In Siria centrale, lo Stato Islamico è completamente crollato nei pressi dell'antica città di Palmira,

l' esercito siriano arabo ha liberato l'importante Triangolo Arak,

che comprende la città di Arak, Talilah Crossroad, e T-3 ( La stazione di pompaggio ) .

 

 

Il filmato video qui sotto mostra l'esercito siriano arabo combattere lo Stato Islamico all'interno del Arak Gas Fields.

https://youtu.be/SyqK4RKXGVM

 

.... e adesso puntano verso Deir Ezzor ( As-Sukhna )

https://youtu.be/wBtatpZbErQ

 

....La coalizione guidata dagli Stati Uniti ha liberato un convoglio di ISIS ( poi , lo chiameranno SDF/FSA-franchising ... ) da Raqqa . Direzione Deir Ez-Zor .

https://youtu.be/ryZ6ThafAt4

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Posto alcuni estratti, per me i più interessanti, da quest'articolo di Robert F. Worth. Se avete voglia di leggere.. sefz

What destroyed Aleppo? It was not the sectarianism that is often held up as a key to the Syrian war. It was not just “terrorism,” the word used by regime apologists to fend off any share of blame. Those things played a role, but the core of the conflict in Aleppo, as in much of Syria, was a divide between urban wealth and rural poverty. It is not new. Travelers in the Ottoman era used to describe the shocking gulf between Aleppo’s opulence and the countryside surrounding it, where peasants lived in almost Stone Age conditions. Later, this divide mapped onto the city itself, as eastern Aleppo spread and filled with poor migrants. Deeply religious and mostly illiterate, smoldering with class resentment, they became the foot soldiers of a violent insurgency led by the Muslim Brotherhood in the 1970s. That rebellion burned for years and culminated in the Syrian regime’s notorious massacre of 10,000 to 30,000 people in the city of Hama in 1982. Hundreds of people were killed in Aleppo, too, and a siege atmosphere marked the entire city. The Syrian novelist Khaled Khalifa, who grew up in Aleppo during those years and wrote a novel about it, told me in 2008 that the city’s cosmopolitan traditions had helped protect it. But he added: “All this has harmed Syrian society so much. If what happened in the 1980s were to happen again, I think the Islamists would win.”

 

One tragedy of Aleppo is that this rift between rich and poor was slowly mending in the years just before the 2011 uprisings. An economic renaissance was underway, fueled by thousands of small factories on the city’s outskirts. The workers were mostly from eastern Aleppo, and the owners from the west. A trade deal with Turkey, whose border is just 30 miles to the north, brought new business and tourists and optimism. I remember sitting at cafe table with two Turkish traders just outside the citadel in late 2009. Tourists thronged all around us, and the two men talked excitedly about how new joint ventures were melting the animosity between their country and Syria. “Erdogan and Assad, they are like real friends,” one of them said, referring to President Recep Tayyip Erdogan of Turkey.

 

This kind of optimism was one reason the revolution took so long to reach Aleppo. All through 2011, as the rest of Syria erupted in protest, its largest city was quiet. But by 2012, in the villages just beyond the city’s edges, weaponry was flowing in from across the Turkish border and battalions were being formed. “The countryside was boiling,” I was told by Adnan Hadad, an opposition activist who was there at the time and belonged to the Revolutionary Military Council in Aleppo, a group led by Syrian military officers who defected. The council was eager for more European and American recognition and sensitive to Western calls for the preservation of most of Syria’s state institutions. But local rural people tended to side with a more Islamist and less patient group called Liwa al-Tawheed. Tawheed’s members “considered themselves more authentic” and had begun getting their own funding from Persian Gulf donors, Hadad told me. In the spring of 2012, Tawheed’s members began pushing for a military takeover of Aleppo, accusing the council of excessive caution and even secret deals with the regime. The council resisted, saying they should move only when it was clear that the city’s people wanted them to. In July, Tawheed took matters into its own hands. Armed insurgents flooded eastern and southwestern parts of the city, taking over civilian houses as well as police stations in the name of the revolution. Hadad considered the move a “fatal mistake,” he told me, and resigned from the military council.

 

By then, eastern Aleppo had become a rebel stronghold. In early 2013, elections for provincial councils took place, giving the rebels a civilian veneer. But the councils, initially funded by the Syrian branch of the Muslim Brotherhood, were soon under pressure from the Nusra Front, the Syrian Qaeda affiliate, and other hard-line groups. Later, ISIS forces captured parts of the city and forced residents to live by their rigid code. In theory, Aleppo was an embattled showplace for the Syrian revolution’s aspirations. In fact, most civilians were dependent on a patchwork of armed rebel factions for food and protection. The constant pressure of war left almost no room for a real economy, and many of the city’s factories had been repurposed by the rebels as military bases.

Now Aleppo’s great economic engine lies in ruins. One afternoon, a 45-year-old factory owner named Ghassan Nasi took me to the industrial area just west of Aleppo called Layramoon. The sounds of the city dissipated as we drove west, and when the car stopped, there was an eerie silence. An entire district that once hummed with 1,000 small factories was now abandoned, most of its buildings shattered and burned. “It is a 100 percent loss here,” Nasi said. We walked down a dusty street to his factory, a textile and dyeing house that employed 130 people who worked 24 hours a day in three shifts. The door still had its metal filigree gate and marble steps. “This is where workers stamped in and out,” he said.

 

Inside, the huge factory floor was burned black and strewn with rubble. The rebels had used it to make weapons, he said. His old office had been used to house prisoners. Nasi told me quietly that he collapsed to his knees upon seeing it again last summer. “I lost $10 million in machinery, $4 million in land,” he said. “Even if we rebuild, the machinery is gone, and with the sanctions, we cannot buy new machinery.” On top of that, there is inflation: The American dollar was worth 47 Syrian pounds before the crisis, and now it trades unofficially at about 520. And Turkey — where much of the Aleppo factories’ machinery was transported and sold, often with the collusion of Syrian owners who wanted to avoid losing everything — now sells similar textiles for less. Reviving Syrian industry, and the social glue it might once have provided, is next to impossible.

 

I asked Nasi what had become of his workers. He said about 70 percent of them joined the rebels. He didn’t seem bitter or surprised about this. Some lived nearby, so when the area was divided, they had little choice. As for the others, they were poor and ill educated and religious, and the rebels promised them a lot. “The average salary for workers was about a hundred dollars a week,” he said. “The rebels paid more.”

It is impossible to live in government-controlled Syria without noticing that there are almost no young men on the street. They are in the army, or they are dead. Veterans must carry their military papers with them or risk on-the-spot re-enlistment. At one checkpoint, government soldiers tried to grab the young Spanish photographer I was working with, who is easily mistaken for a Syrian; they wanted to recruit him. In Latakia, a beach town in the regime’s northwestern heartland, I met a 53-year-old businessman named Munzer Nasser, who commands a militia composed almost entirely of older men; there are no young men left in his village. One of its members, he told me, is a 65-year-old whose three sons have all been killed in the war. Behind the Assad regime’s atrocities lies a fear of demographic exhaustion. Its rebel opponents have no such worries: They can draw on a vast well of Islamist sympathizers across the Arab world.

 

These facts translate into a genuine gratitude — in regime-controlled areas — toward Russia, whose military intervention in late 2015 may have forestalled a total collapse. Many Syrians say they feel reassured by the sight of Russian soldiers, because they (unlike the army and its allied militias) are not likely to loot or steal. Some of my contacts in regime-controlled areas are even learning Russian. In Latakia, some people told me that their city might have been destroyed if not for the Russians. The city has long been one of Syria’s safe zones, well defended by the army and its militias; there are tent cities full of people who have fled other parts of the country, including thousands from Aleppo. But in the summer of 2015, the rebels were closing in on the Latakia city limits, and mortars were falling downtown. If the rebels had captured the area — where Alawites are the majority — a result would almost certainly have been sectarian mass murder. Many people in the region would have blamed the United States, which armed some of the rebels operating in the area. In this sense, the Russian intervention was a lucky thing for the Obama administration too. Andrew Exum, who worked in the Pentagon at the time, told me that the military drew up contingency plans for a rapid collapse of the regime. The planning sessions were talked about as “catastrophic success.”

 

Yet Assad’s popularity is due not only to his role as the guarantor of a secular order. He has also cannily positioned himself as a unique guardian against his own regime. Just before I arrived in Aleppo in March, a high-ranking Republican Guard commander in the city issued a public order declaring a crackdown on “acts of looting, robbery and assaults on public property and on the freedoms of citizens and their private property.” The order was a belated recognition of what had been going on for months: an orgy of looting by the various paramilitary groups that work alongside the Syrian Army, and even by elements of the army itself.

 

[…]

 

Publicly, the Syrian state deplores these crimes, but privately it seems to condone them as a form of compensation for the paramilitary groups, whose support Assad needs to supplement his decimated army. (The rebels do it, too, and sometimes offer an Islamic justification: ghana’im al-harb, the spoils of war.) Only when the looting starts to spin out of control, as it did in Aleppo in January and February, is there a crackdown. But such systematized thievery has become entrenched in an economy that is more corrupt than ever. Regime-allied armed groups often set up checkpoints and extort taxes from farmers and businessmen, making it that much harder to earn a living. “You pay through the nose to transport anything anywhere,” I was told by a man who manufactures plastics and has seen most of his profit margin disappear. “Bashar can’t do anything about this. He is in survival mode.” Meanwhile, war profiteers (tujjar al-harb — another phrase you hear a lot in Syria nowadays) have become well-known figures. I was amazed to see new, lavish-looking restaurants in Damascus; some of them belong to men who are said to have grown rich from crime. Members of the old Damascus business elite wince when they describe the clientele in these places. One friend told me, “You see a guy in a business suit in a fancy bar talking to a thuggish-looking guy in fatigues, and you understand the conversation without hearing anything.” Some of these men are also widely said to sell oil to rebel groups for huge profits.

 

Late last year, Iran abruptly suspended oil deliveries, which have become a lifeline for Syria. Iran acted because it was angry about the amount of its fuel that was being diverted and sold to rebels by regime-connected middlemen, I was told by a Syrian who has close ties to Hezbollah, Iran’s ally. The suspension created a serious fuel crisis in winter. Iran resumed its supplies in mid-February, but Tehran has little choice: It needs Assad as much as he needs it. There are reports of similar tensions with the Russians, who are more interested in brokering an end to the fighting than Assad is. The Syrian businessman put it like this: “Bashar is like a man with two false legs — one is Russia and one is Iran. He keeps hopping from one leg to the other, because the ground he is standing on is very hot.”

 

All this may sound awfully precarious for Assad. But in a sense, it is just a more extreme form of the game Assad and his father have played for decades. The Assad regime arose after an unstable period during the 1950s and ’60s, when Syria was shaken by coups and countercoups. Hafez al-Assad, Bashar’s father, triumphed in part by managing a constellation of rivals who hated one another but were all dependent on him. They knew that without him at the center, chaos would return, and that would be bad for business. This is truer than ever today. And it has a secondary effect, not unimportant: Many ordinary people now see Assad as their only hedge against a far more toxic kind of chaos.

 

My Syrian businessman friend told me that he twice gathered about a dozen people for dinner and offered them a hypothetical in strict confidence. It is up to you to name the next president of Syria, he said. Whom would you choose? The guests were all Syrians, and none supported the regime. To his surprise, almost all of them named Assad. When he asked why, the same answer came back again and again: Assad is the only one who can protect us against his own devils.

On March 30, 2011, Assad delivered a televised speech to Syria’s rubber-stamp Parliament that is widely viewed in retrospect as a crucial step in the country’s descent into war. He had kept silent during the previous two weeks of protest and violence. Some of his advisers and proxies had hinted, in the days beforehand, that he would make historic proposals, offering a hand to the protesters and paving the way for genuine national reconciliation. Much of the region tuned in as Assad walked up a red carpet into the Parliament building past a cheering crowd. But his speech quickly turned into a familiar, embarrassing spectacle, with lawmakers chanting his name and interrupting his speech with fawning accolades. Assad delivered a hard-line speech deriding the protesters as dupes of a foreign-backed plot to destroy the country. He closed on an ominous note, saying: “There is no compromise or middle way in this. What is at stake is the homeland, and there is a huge conspiracy. ... We have never hesitated in defending our causes, interests and principles, and if we are forced into a battle, so be it.”

 

One former regime official told me that he recalls watching the speech with a sense of shock and dismay. He and other high-ranking officials had heard in advance the details of what the speech was supposed to say. It had been drafted, they were told, by Vice President Farouk al-Shara, and it emphasized reconciliation with the protesters. Shara had received input from several other top officials with similar inclinations. This version of the speech even had the support of Hezbollah’s leaders, who believed that genuine gestures of compromise could head off a war, the former official said. Other people close to the regime have echoed this account, though there are analysts who are skeptical; it’s almost impossible to be sure about what happens in Assad’s secretive inner circle.

 

What is certain is that Assad did not deliver the speech that was expected. Instead, the former official said, he scrapped it at the last minute in favor of a much more aggressive text. “When I heard the speech, my feeling was — we are in for a long fight,” the former official told me. “I was in my office. We looked around at each other and did not say a word.” He remains convinced that if Assad had given the other speech, the past six years would have unrolled very differently, and oceans of blood might have been spared.

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Armi. Yemen, bombe «italiane». Ecco le nuove prove

 

 

Nello Scavo venerdì 16 giugno 2017

 

Armi di produzione italiane usate in Yemen. Da anni la Rete italiana per il disarmo denuncia l’esportazione verso la coalizione saudita

 

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Un frammento di un ordigno prodotto in Italia dalla società RWM Italia che, secondo la denuncia dell'organizzazione non governativa Mwatana, e' tra quelli usati nell'ottobre in Yemen in un raid che ha ucciso almeno 6 persone, di cui 4 minori, condotto dalla Coalizione internazionale a guida saudita contro l'insurrezione locale degli Huthi. (Ansa)

 

L’ultima è la Bahri Jedda. Il cargo saudita, salpato da Cagliari la settimana scorsa, secondo i radar sta consegnando in queste ore il nuovo carico: 2.000
bombe
per i caccia della coalizione che martella lo
Yemen
. Il governo italiano non ha mai ufficializzato i nomi dei Paesi destinatari,
.
La sigla 'A4447', incisa su una scheggia indica che l’ordigno proviene dalla Rwm Italia, che ha sede legale a Ghedi (Brescia) e stabilimenti a Domusnovas, in Sardegna, ma che fa capo al gruppo tedesco Rheinmetall.

Secondo l’ong yemenita Mwatana, il numero di matricola (nella foto), trasmesso all’ufficio Ansa di Beirut, è stato rinvenuto a Der al Hajari, nella regione nord-occidentale di Hodeida. I caccia piombarono alle 3 di notte dell’8 ottobre 2016: almeno sei civili uccisi, tra cui 4 bambini. Nel gennaio scorso un gruppo di esperti incaricati dall’Onu di indagare sulle violazioni in
Yemen
aveva certificato l’uso delle
bombe
della Rwm Italia sulle aree civili, affermando che questi raid «possono costituire crimini di guerra». L’identificazione degli
ordigni
«è stata resa possibile - ha spiegato Mwatana - grazie all’analisi delle sigle».

Anche Giorgio Beretta, dell’Osservatorio sulle
armi
di Brescia (Opal) ha confermato ad
Avvenire
la corrispondenza della matricola Da anni la Rete italiana per il
disarmo
denuncia l’esportazione verso la coalizione saudita, impegnata dal 2015 in raid aerei per reprimere l’insurrezione Huthi e dei loro alleati. In due anni di escalation armata, l’Onu ha documentato l’uccisione di circa 7.600 persone e il ferimento di 42mila.
ma sul numero di pezzi realmente esportati erano state avviate due inchieste giudiziarie a Cagliari e Brescia. Le procure, però, hanno trasmesso per competenza i fascicoli ai pubblici ministeri di Roma. L’elenco dei destinatari e il tipo di
armi
ad essi destinate, è coperto dal segreto. L’incrocio dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette però di affermare che «una licenza da 411 milioni di euro alla Rwm Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita », osserva Giorgio Beretta.

Si tratta dell’autorizzazione all'esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Informazione che coincide esattamente con il contenuto di un documento finanziario della tedesca Rheinmetall che per l’anno 2016 segnala un ordine «molto significativo» del valore di 411 milioni di euro proveniente da un cliente della regione 'Mena', che sta per Medio-Oriente e Nord Africa. Nella lista dei Paesi verso i quali la Germania ha esportato più armamenti nel 2016, l’Arabia saudita è terza dietro Algeria e Stati Uniti, un balzo in avanti rispetto al settimo posto del 2015. Secondo l’ultimo rapporto annuale sull’export dei «sistemi di difesa», approvato mercoledì dal consiglio dei ministri tedesco, l’anno scorso Berlino ha fornito ai sauditi armamenti per un volume complessivo di 529 milioni di euro. Ai sauditi sono stati forniti elicotteri (da combattimento e non), aerei da trasporto e per il rifornimento in volo. Nella lista non si parla invece di bombe poiché formalmente si tratta di una esportazione italiana.

Nel documento non compaiono però tutti gli affari compiuti dalla Germania con Riad: un anno fa, ad esempio, una controllata sudafricana del gruppo Rheinmetall (Rheinmetall Denel Munition, Rdm) ha partecipato alla costruzione in Arabia Saudita di una fabbrica di munizioni, un investimento che non è elencato nel rapporto del governo di Berlino. Da gennaio ad aprile del 2017 l’esecutivo tedesco ha inoltre autorizzato l’export di
armi
in
Arabia Saudita
per 48 milioni di euro. A fine aprile, in concomitanza con una visita di Angela Merkel in Arabia Saudita, il viceministro saudita dell’Economia, Mohammad al-Tuwaijri, aveva detto allo
Spiegel
che in futuro Riad rinuncerà alle armi tedesche. L’Italia non è affatto da meno. Durante poco più di 2,1 miliardi - osserva l’Opal di Brescia – ad oltre 14,6 miliardi di euro, con un incremento è del 581%».

Il 'Made in Italy' ha raggiunto quota 14,6 miliardi nel 2016 (+85% rispetto al 2015), ma il confronto con le relazioni ministeriali dell’ultimo quinquennio permette di scoprire che i dati del 2016 costituiscono un +452% rispetto al 2014. Il 9 maggio 2017 la Fondazione Finanza etica è intervenuta in Germania all’assemblea degli azionisti della società Rheinmetall. Ai vertici della multinazionale è stato chiesto il perché delle continue esportazioni italiane. «Il governo il governo Renzi le autorizzazioni per esportazioni di
armamenti
sono quasi sestuplicate: «Da italiano ha dato il suo assenso», è stata la risposta e questo «per l’azienda è sufficiente, nel rispetto delle leggi». Gli effetti collaterali dello scontro hanno molti volti.

L’epidemia di colera scoppiata in
Yemen
da fine aprile ha causato la morte di 989 persone, secondo il nuovo bilancio reso noto dall’ufficio locale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), che parla di oltre 140mila casi sospetti. Ma nel Paese dove scarseggiano aiuti umanitari e sanitari, i 14 container della Bahri Jedda non faranno mancare rifornimenti all’aviazione delle petromonarchie.

Avvenire

 

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Bè, che le bombe non siano attrezzature da cucina ma che abbiano la funzione di uccidere è cosa piuttosto nota, come è anche risaputo che nel 2016 le aziende italiane del comparto bellico abbiano venduto, seguendo i canali di legge stabiliti dallo stato italiano, circa 427 milioni di € di armi all'Arabia Saudita su un totale di 14,6 miliardi di esportazioni belliche totali (quindi un modesto 2,92% del totale).

Prendiamo quindi atto di come anche Avvenire si sia accorto che al mondo esistono paesi che (orrore!) vendono armi e paesi che (doppio orrore!) queste armi le comprano.

Bravi, meglio tardi che mai! .ok

 

sefz

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Ma scoprono l'acqua calda!?!?

 

L'Italia è un gran paese esportatore di materiale bellico di vario genere.

 

L'Arabia Saudita che ha tantissime disponibilità acquista ogni tipo di arma da tanti paesi

 

Qualora l'Italia dovesse non vendere più armi ai saudita quest'ultimi non si faranno problemi: in quanto li compreranno da Francia, Usa e altri paesi.

 

La soluzione forse sta nel mettere una sorta di embargo di arsenale nei confronti dell' Arabia Saudita, ma la vedo molto difficile in quanto si parla di decine di miliardo di euro

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Ma scoprono l'acqua calda!?!?

 

L'Italia è un gran paese esportatore di materiale bellico di vario genere.

 

L'Arabia Saudita che ha tantissime disponibilità acquista ogni tipo di arma da tanti paesi

 

Qualora l'Italia dovesse non vendere più armi ai saudita quest'ultimi non si faranno problemi: in quanto li compreranno da Francia, Usa e altri paesi.

 

La soluzione forse sta nel mettere una sorta di embargo di arsenale nei confronti dell' Arabia Saudita, ma la vedo molto difficile in quanto si parla di decine di miliardo di euro

 

Mettere l'embargo sulle armi all'Arabia Saudita?

I sauditi sono praticamente i primi importatori di armi al mondo, visto che i 2 paesi che li precedono come spesa militare (USA e Cina) le armi se le fanno in casa da soli, nessuno escluderebbe dal mercato il cliente più importante!

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Mettere l'embargo sulle armi all'Arabia Saudita?

I sauditi sono praticamente i primi importatori di armi al mondo, visto che i 2 paesi che li precedono come spesa militare (USA e Cina) le armi se le fanno in casa da soli, nessuno escluderebbe dal mercato il cliente più importante!

 

Si ma il mio pensiero di embargo era riferito all'Arabia saudita importatrice, per tutte le palle che stanno girando sulle bombe italiane. Volere o volare loRo bombardano lo Yemen come vogliono, sia con l'arsenale italiano o meno

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Ma scoprono l'acqua calda!?!?

 

L'Italia è un gran paese esportatore di materiale bellico di vario genere.

 

L'Arabia Saudita che ha tantissime disponibilità acquista ogni tipo di arma da tanti paesi

 

Qualora l'Italia dovesse non vendere più armi ai saudita quest'ultimi non si faranno problemi: in quanto li compreranno da Francia, Usa e altri paesi.

 

La soluzione forse sta nel mettere una sorta di embargo di arsenale nei confronti dell' Arabia Saudita, ma la vedo molto difficile in quanto si parla di decine di miliardo di euro

 

 

L'industria bellica ( ed il Suo "indotto " ) è quella che negli ultimi anni è cresciuta di più in USA !!

 

Es.: sotto l’amministrazione Obama,

gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire all’Arabia Saudita strumenti militari – tra cui missili, elicotteri e navi da guerra di piccolo tonnellaggio – per un controvalore di 115 miliardi di dollari.

I fucili mitragliatori, le munizioni, i missili, gli elicotteri, le navi da guerra di piccolo tonnellaggio, ecc. consegnati in base ai 42 accordi bilaterali sottoscritti durante gli otto anni di mandato di Obama sono serviti a Riad da un lato a rifornire di armi una parte assai considerevole di gruppi jihadisti operanti in Siria e Libia, e dall’altro a condurre la disastrosa campagna militare in Yemen, dove gli attacchi sauditi hanno provocato effetti pesantissimi sulla popolazione civile.

 

Nel settembre 2016, il governo Usa guidato da Barack Obama e l’esecutivo israeliano

hanno siglato un memorandum d’intesa in base al quale il governo di Washington si è impegnato a fornire qualcosa come 38 miliardi di dollari di finanziamenti a Tel Aviv entro la finestra temporale che va dal 2019 al 2029, vincolati all’acquisto di armamenti fabbricati dal complesso militar-industriale statunitense. Si tratta del più imponente pacchetto di aiuti militari mai concesso dagli Usa ad un altro Paese, da considerare come il prezzo pagato da Washington per l’accordo sul nucleare iraniano.

Lo ha ricordato il segretario alla Difesa Ashton Carter in occasione della visita in Israele del dicembre 2016, durante la quale è stata celebrata la consegna all’aeronautica militare dello Stato ebraico dei primi due caccia F-35.

 

Nonostante ciò, una delle prime mosse compiute da Donald Trump da presidente è stata quella di firmare un nuovo accordo ai sensi del quale gli Usa consegneranno a Riad forniture d’armi per 350 miliardi di dollari nel corso dei prossimi dieci anni.

Armi che potrebbero andare a potenziare ulteriormente la forza d’urto delle bande islamiste impegnate a destabilizzare i governi mediorientali sgraditi alla famiglia reale saudita o, nel caso peggiore, ad alimentare un conflitto con l’Iran, storico nemico giurato di Riad , e dall’altro a condurre la disastrosa campagna militare in Yemen, dove gli attacchi sauditi hanno provocato effetti pesantissimi sulla popolazione civile.

L’influenza del potere militare nell’Economia, nella politica ed anche nella " spiritualità " viene avvertita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale ,

nei mass media controllati dai poteri forti , ecc.

 

Il problema di limitare l'industria bellica nasce ( per gli USA in primis) dalla seconda guerra Mondiale .

Durante il conflitto, l’industria militare aveva assorbito una quota ragguardevolissima della forza lavoro statunitense e nelle stesse fabbriche di aziende operanti in settori civili come la General Motors e la Ford la produzione per lungo tempo era stata orientata a sostegno dello sforzo bellico.

 

Fu questo poderoso sviluppo industriale trainato dalla Seconda Guerra Mondiale a consentire agli Stati Uniti di azzerare la disoccupazione ( o quasi ) e superare la "Grande Depressione", ma ciò aveva indistricabilmente legato la crescita economica del Paese al cosiddetto " complesso militar-industriale " , un potentissimo oligopolio formato essenzialmente dai colossi

Lockheed Martin,

Raytheon,

General Dynamics,

Boeing

e Northrop Grumman

attorno a cui ruotano un indotto di 100.000 aziende che impiegano quasi 4 milioni di lavoratori.... !!!

 

La connessione tra avanzata del "complesso militar-industriale’ " e crescita economica è diventata evidentissima nel momento in cui è divenuto chiaro che,

basando la propria forza sull’innovazione (realizzabile unicamente attraverso il potenziamento di settori cruciali come quelli della ricerca), l’industria bellica stava progressivamente trasformandosi nel vero motore dello sviluppo tecnologico

che gli Stati Uniti avrebbero conseguito negli ultimi decenni

– lo stesso internet nasce dalle ricerche condotte in ambito militare - .

Uno sviluppo che si è poi esteso a gran parte del pianeta attraverso l’esportazione delle tecnologie Usa,

le quali permettono oggi ad agenzie come la National Security Agency di passare al setaccio buona parte dei flussi di comunicazione che avvengono a livello planetario ,

non solo (e non tanto) per sventare attentati e contrastare lo spionaggio,

quanto per scoprire le inclinazioni dei consumatori in chiave commerciale e intercettare scambi di informazioni tra governi e imprese che possono risultare utili ad indebolire la concorrenza.

 

Il bilancio crescente della Difesa, la proliferazione di basi militari Usa in giro per il Mondo, l’allargamento della Nato – che vincola i Paesi membri a dotarsi di armi ed equipaggiamenti di fabbricazione statunitense – il flusso sempre più poderoso di armi verso i propri alleati/sottoposti – che tende sovente a tradursi in conflitti per procura – si spiega in parte con il soverchiante peso politico assunto dal " complesso militar-industriale " .

 

Ma non è tutto, perché nel business della guerra rientrano naturalmente anche le imprese che si occupano di RICOSTRUZIONE .... !!!

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Scusate eh, ma sembra che cadiate dal pero... :d

Parlate dell'industria degli armamenti come se la scopriste adesso, quando invece è così da sempre.

 

Ed è ovvio che sia così, visto che il principale motore di sviluppo delle nuove tecnologie sono proprio la ricerca militare e quella aerospaziale le quali, solo successivamente hanno le loro brave ricadute anche in ambito civile sui beni di largo consumo... comunicazioni, materiali, elettronica, informatica... sono solo alcuni settori in cui la ricerca militare ha prodotto ricadute civili, compresi internet, il gps, nonchè una delle prime forme di intelligenza artificiale progenitrice del computer, la macchina Colossus basata sugli studi di Alan Turing per decrittare le comunicazioni naziste...

Per non parlare dell'esempio più classico, l'aereo: che inizialmente considerato una specie di bizzarro giocattolo inutile, fu utilizzato per la prima volta in guerra dagli italiani in Libia nel 1911 ( .primo1) per poi avere il suo battesimo definitivo durante la Prima guerra mondiale...

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per chi vuole farsi un po di cultura e capire sciismo e sunnismo, la cultura e storia islamica, la mentalità nel mondo musulmano e altre cose

come il califfato. ecco un'interessantissimo video di massimo campanini, uno studioso che reputo molto in gamba e preparato.

 

https://youtu.be/De4EIew7fDg

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