Vai al contenuto

Benvenuti su VecchiaSignora.com

Benvenuti su VecchiaSignora.com, il forum sulla Juventus più grande della rete. Per poter partecipare attivamente alla vita del forum è necessario registrarsi

Archiviato

Questa discussione è archiviata e chiusa a future risposte.

Mormegil

Guerra di Siria e situazione mediorientale: news e commenti

Post in rilievo

14 minuti fa, sol invictus ha scritto:

Ghouta,  presumo...

è difficile che riporti qualcosa dal "giornale che cogliona i lettori" (citando un mio caro amico nonché cofondatore di questo forum), ma questa foto è veramente emblematica nella sua plastica rappresentazione; da padre è un pugno nello stomaco. 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
5 minuti fa, Ronnie O'Sullivan ha scritto:

è difficile che riporti qualcosa dal "giornale che cogliona i lettori" (citando un mio caro amico nonché cofondatore di questo forum), ma questa foto è veramente emblematica nella sua plastica rappresentazione; da padre è un pugno nello stomaco. 

L'hai presa da Libero? :d

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
14 ore fa, Ronnie O'Sullivan ha scritto:

è difficile che riporti qualcosa dal "giornale che cogliona i lettori" (citando un mio caro amico nonché cofondatore di questo forum), ma questa foto è veramente emblematica nella sua plastica rappresentazione; da padre è un pugno nello stomaco. 

E' una foto che ha fatto il giro del mondo e che è stata diffusa da tutti i giornali o quasi. Sono d'accordo, è terribile e commovente al tempo stesso. Ma serve a riportare l'attenzione, almeno per un pò, su quello che sta succedendo a Ghouta.

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Pare non avere mai fine il Reality Trump. Dopo la cacciata di Tillerson sembra stia per scoccare l'ora del consigliere alla sicurezza nazionale,  generale McMaster che appena un anno fa aveva sostituito Michael Flynn,  costretto alle dimissioni in quanto implicato fino al collo nello scandalo Russiagate. McMaster, solido elemento dell'apparato militare ed ottimo teorico di vedute realistiche sarebbe entrato nella lista nera di Trump in quanto non esattamente malleabile e poco propenso ad assecondare ogni volta le bizze umorali del suo Commander in Chief, il quale invece pretende, dai suoi subordinati, obbedienza devota ed allineamento assoluto.

McMaster sarebbe stato anche fautore dell'estromissione, dal consiglio per la sicurezza nazionale, di Steve Bannon, ideologo della alt-right e stratega maximo della vittoria elettorale trumpiana, che aveva allungato i suoi tentacoli sul consiglio e che, mal digerito per via del suo populismo primitivo, era stato  fired su pressioni combinate di Kuschner,  genero di Trump e di McMaster. Anche in questo caso, come già per Kelly, Trump sembra aver "subito" più che imposto le dimissioni del suo protetto.

A volere pensare male, quindi, il probabile prossimo siluramento di McMaster da parte di Trump si configurerebbe come una rivincita "postuma" di Bannon che non ha mai interrotto i suoi rapporti con il presidente.

Secondo i rumors provenienti da oltreoceano,  McMaster potrebbe essere sostituito dal suo vice,  Kellog,  oppure -nientemeno che- da John Bolton ex ambasciatore USA all'ONU ai tempi di George W Bush,  ferocemente avverso all'Iran e -lui si- di estrazione neocon, il cui nome di candidato a far parte della squadra di Trump era stato fatto già a novembre 2016, cioè pochi giorni dopo le elezioni presidenziali. 

Difficile capire quindi, ciò che si sta muovendo nel Reality Trump: a prima vista tutto sembra portare ad un irrigidimento USA nei confronti di Teheran, in un accumularsi di dietrologie e scenari presenti e futuri del tutto ipotetici che lasciano il tempo che trovano e che forse,  secondo il ben noto principio del Rasoio di Occam potrebbero ridursi semplicemente alla spiegazione più banale: il tourbillon di licenziamenti e nomine non soggiace ad alcuna strategia razionale bensì unicamente all'istinto umorale di Trump ed alla sua egocentrica necessità di circondarsi di personaggi caninamente devoti ai suoi capricci.

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Afrin, giornata di ieri. Truppe turche e guerriglieri suoi alleati hanno alla fine conquistato Afrin, strappandola ai curdi.

L'operazione è avvenuta senza che  Mosca trovasse nulla da ridire circa la presenza di truppe turche in territorio siriano ed è quindi da interpretare come il frutto naturale di un accordo preesistente tra Putin ed Erdogan: che in questa corrispondenza di amorosi sensi tra la volpe Putin ed il gatto Khamenei vorrebbe considerarsi come il terzo vincitore del pastrocchio siriano, ma che al massimo può aspirare al ruolo di sciacallo.

In tutto ciò, polemiche si sono levate perché tra i guerriglieri armati e foraggiati da Ankara vi sarebbero dei gruppi jihadisti. 

Ed in effetti, a giudicare dalla foto, almeno due dei soggetti ritratti appaiono un tantinello inquietanti: il primo da destra, che sfoggia un fluente onor del mento in stile talebano ed il terzo da sinistra che pare invece un Bin Laden con la barba accorciata. 

 

A questo punto una domanda si impone:

Visto che nei mesi scorsi si diceva che Washington sponsorizzasse i terroristi per via dei jihadisti armati da Ryadh,  possiamo adesso dire che Mosca sponsorizza i terroristi per via dei jihadisti armati da Ankara?

 

Ai posteri l'ardua sentenza (e magari anche ai contemporanei,  chè schifo non mi farebbe... .ehm )

 

 

2ef85b1d7244402baaf30a8fe04701b2.jpg

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
1 ora fa, sol invictus ha scritto:

Afrin, giornata di ieri. Truppe turche e guerriglieri suoi alleati hanno alla fine conquistato Afrin, strappandola ai curdi.

L'operazione è avvenuta senza che  Mosca trovasse nulla da ridire circa la presenza di truppe turche in territorio siriano ed è quindi da interpretare come il frutto naturale di un accordo preesistente tra Putin ed Erdogan: che in questa corrispondenza di amorosi sensi tra la volpe Putin ed il gatto Khamenei vorrebbe considerarsi come il terzo vincitore del pastrocchio siriano, ma che al massimo può aspirare al ruolo di sciacallo.

In tutto ciò, polemiche si sono levate perché tra i guerriglieri armati e foraggiati da Ankara vi sarebbero dei gruppi jihadisti. 

Ed in effetti, a giudicare dalla foto, almeno due dei soggetti ritratti appaiono un tantinello inquietanti: il primo da destra, che sfoggia un fluente onor del mento in stile talebano ed il terzo da sinistra che pare invece un Bin Laden con la barba accorciata. 

 

A questo punto una domanda si impone:

Visto che nei mesi scorsi si diceva che Washington sponsorizzasse i terroristi per via dei jihadisti armati da Ryadh,  possiamo adesso dire che Mosca sponsorizza i terroristi per via dei jihadisti armati da Ankara?

 

Ai posteri l'ardua sentenza (e magari anche ai contemporanei,  chè schifo non mi farebbe... .ehm )

 

 

2ef85b1d7244402baaf30a8fe04701b2.jpg

Diciamo però che il concetto di "jihadista" è molto vago. Se per jihadista intendiamo uno di Alqaeda/Isis che vuole colonizzare il mondo, ecc ecc ecc allora ci vogliono elementi precisi per dire che uno è jihadista, non è certo la barba ad indicarlo. Se invece, come uso comune nel mondo arabo, un "mujahid" è chi in guerra si fa forza con la fede, con il "vittoria o martirio", ecc allora tutti gli arabi credenti in guerra possono essere considerati "jihadisti", di fatto pure molti soldati degli eserciti regolari. 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
30 minuti fa, JuventusOnly ha scritto:

Diciamo però che il concetto di "jihadista" è molto vago. Se per jihadista intendiamo uno di Alqaeda/Isis che vuole colonizzare il mondo, ecc ecc ecc allora ci vogliono elementi precisi per dire che uno è jihadista, non è certo la barba ad indicarlo. Se invece, come uso comune nel mondo arabo, un "mujahid" è chi in guerra si fa forza con la fede, con il "vittoria o martirio", ecc allora tutti gli arabi credenti in guerra possono essere considerati "jihadisti", di fatto pure molti soldati degli eserciti regolari. 

Si, è vero. Bisognerebbe però che lo capissero anche tutti coloro che fin dall'inizio hanno bollato l'intera opposizione anti-Assad come terroristica tout-court.

Primo fra tutti lo stesso Assad... sefz 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
24 minuti fa, sol invictus ha scritto:

Si, è vero. Bisognerebbe però che lo capissero anche tutti coloro che fin dall'inizio hanno bollato l'intera opposizione anti-Assad come terroristica tout-court.

Primo fra tutti lo stesso Assad... sefz 

Assad almeno sa quello che fa, il problema sono tutti i suoi "seguaci" occidentali, gente che considera l'UE una "dittatura" ma osannano i dittatori veri. Misteri della mente umana! 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

E' uno schifo che grida vendetta al cospetto di Dio, qualsiasi sia l'idea che dello stesso hanno i vari attori in scena. 

A proposito di dei e di idoli, una domanda a @sol invictus (tanto caro a Costantino quanto il Dio dei cristiani, quando si dice servire il proprio ego): ma Putin, lo sgarbo di Erdogan con l'abbattimento del caccia russo, l'ha digerito? Io lo facevo un tipo assai vendicativo; secondo me, prima o poi il dittatore turco pagherà pegno. 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
2 ore fa, Ronnie O'Sullivan ha scritto:

E' uno schifo che grida vendetta al cospetto di Dio, qualsiasi sia l'idea che dello stesso hanno i vari attori in scena. 

A proposito di dei e di idoli, una domanda a @sol invictus (tanto caro a Costantino quanto il Dio dei cristiani, quando si dice servire il proprio ego): ma Putin, lo sgarbo di Erdogan con l'abbattimento del caccia russo, l'ha digerito? Io lo facevo un tipo assai vendicativo; secondo me, prima o poi il dittatore turco pagherà pegno. 

Putin è un notevole animale politico. Un ex-apparatchik del KGB da cui ha assimilato la mentalità spregiudicata ed indecifrabile ed alla quale ha poi unito la propria visione ideologica di una Russia ricostruita dalle sue stesse antiche radici, in qualche modo antimoderna, laddove per antimodernismo si intende il ritorno alle origini e l'avversione al globalismo,  il tutto virato in salsa russa: quindi autocratica (ecco la necessità,  quasi l'obbligo di rigettare la democrazia), spirituale (ecco l'appoggio, ricambiato, alla chiesa ortodossa), tradizionalista (ecco la persecuzione dei gay e delle devianze familiari e sociali), mistica (ecco il riferimento ad intellettuali e filosofi di impronta tradizional-conservatrice: Dostoevskij, Ilyin,  lo stesso ex-dissidente -e pare un paradosso ma non lo è- Solzenicyn, tutti cantori dell'anima russa profonda), veteronazionalista (ecco l'eterno ritorno della Santa Russia assediata dal corrotto Occidente - la Luce e le Tenebre,  elementi tra di loro inconciliabili e destinati al conflitto perenne), messianica (ecco i richiami a Mosca -e non alla più emancipata San Pietroburgo- come terza Roma e ultimo baluardo morale, ma non solo, dopo la caduta delle prime due), metafisica (ecco la Russia come immensa pianura orizzontale, fiumi lenti ed eterni in cui l'uomo russo si compenetra fino a diventarne parte, ben diverso dall'uomo occidentale,  proteso in verticale che sfida invece il cielo con la sua "arroganza"). Il tutto mescolato con la burocrazia, il centralismo e lo statalismo oligarchico di sovietica memoria (adesso l'oligarchia putiniana è economica, in Unione Sovietica era politico - partitica ma il succo è lo stesso, cambia solo il vestito).

Tutto questo è Putin. In lui vi è il richiamo di 1500 anni di storia di una Russia uguale solo a sé stessa, che non è mai stata Occidente né mai potrà esserlo, ma che è e vuole essere (e probabilmente deve) alternativa all'Occidente.

Da qui, nella visione di Putin la necessità di impedire che l'Occidente continui a "contaminare" l'unicità -diciamo pure la "sacralità- della Russia e dei valori,  o presunti tali, di cui si fa portatrice (familismo,  tradizionalismo,  sovranismo,  ortodossia,  patriottismo, autoritarismo...): un pensiero comune a diversi pensatori e ideologi di tutta l'area pravoslava (come ad esempio il serbo Ljotic) che sottintende una profonda avversione per tutti quegli antivalori,  o presunti tali, invece propri dell'Occidente (liberalismo,  democrazia, globalismo, materialismo, secolarismo,  emancipazione...).

Da qui, per Putin, la necessità di combattere una battaglia quasi tra Bene e Male della quale non sono tanto importanti i mezzi che si adoperano per vincere la sfida (ed ecco che ritorna la mentalità da ex-KGB), per i quali su può anche scendere a compromessi o tatticismi,  bensì solo l'obiettivo finale: che è quello di ricostruire la Russia secondo i suoi modelli ideologici. E se tale missione deve passare attraverso la destabilizzazione e demolizione dell'Occidente allora è un prezzo che, secondo Putin, può essere pagato volentieri.

In tal senso non credo che Putin abbia digerito o dimenticato lo sgarbo di Erdogan: semplicemente Erdogan in questo momento è un virus micidiale sparato nel sistema immunitario occidentale che può produrre (e li sta producendo) effetti devastanti sull'Occidente nel suo complesso, sulla NATO, sull'unità euro-americana,  sulla strategia (?) americana in Medio Oriente.  Per questo, da buon spregiudicato KGBbino Putin flirta con Erdogan, perché gli è utile nel suo progetto di restaurazione di una Russia, che non è certo post-comunista bensì semmai neo-imperiale.

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Era il segreto di Pulcinella. Ma ieri è giunta la conferma ufficiale da Israele. È stata l'aviazione israeliana a distruggere il reattore nucleare siriano nel 2007.

L'operazione contro il reattore siriano è stata la fotocopia della celebre Operazione Babilonia del 1981 nel corso della quale gli aerei con la stella di Davide distrussero il reattore nucleare iracheno di Osirak,  infliggendo un colpo mortale alle ambizioni nucleari di Saddam. Quella volta l'operazione fu ancora più spericolata, perché i caccia israeliani dovettero sorvolare una lunga fascia di deserto a cavallo tra la Giordania meridionale e l'Arabia Saudita per poi fare ritorno lungo la stessa strada con le difese aeree arabe già allertate anche se... già allora vi furono dei rumors circa la possibilità che i sauditi si fossero voltati dall'altra parte al passaggio dei caccia israeliani.

Nel caso del reattore siriano del 2007, invece, a voltarsi dall'altra parte potrebbero essere stati i turchi, visto che la rotta di ritorno dei caccia israeliani rasentava il confine meridionale della Turchia: cosa piuttosto plausibile considerato che allora tra Turchia e Israele vi erano ottimi rapporti e cooperazione militare. Erano lontani i tempi di Erdogan versione sultano ed ancora da venire l'incidente della Mavi Marmara che guastato per ora irrimediabilmente i rapporti tra Ankara e Gerusalemme.

Ad ogni modo la rivendicazione dell'attacco da parte di Israele è un chiaro segnale rivolto all'Iran che il tempo delle parole sta volgendo a termine.

 

Imho questo è l'ultimo avvertimento israeliano all'Iran. Dopo ieri, se Teheran dovesse tentare qualcosa di poco gradito ad Israele in territorio siriano, la risposta che riceverà non sarà verbale.

 

http://www.lastampa.it/2018/03/22/esteri/israele-svela-il-raid-contro-il-reattore-di-assad-e-mette-in-guardia-liran-sui-piani-nucleari-F4zF0GU5EOiLLXg77KDimO/pagina.html

 

 



Fino al decollo, in una notte tiepida di settembre, i piloti avevano scherzato sui nomignoli dati all’obiettivo, il «Cubo», detto anche «Cubo di Rubik», o «Scatola da aprire», uno dei nomi in codice. Il «Cubo» però era un reattore al plutonio, piantato in mezzo al nulla nel deserto siriano, a poche decine di chilometri da Deir ez-Zour. Erano le 10 e 30 del 5 settembre del 2007 quando i motori di quattro F-16 e quattro F-15, carichi di 16 tonnellate di bombe di tutti i tipi, cominciarono ad andare al massimo. L’aviazione israeliana si lanciava in una delle missioni più delicate della sua storia. 

 

 

Il governo aveva battezzato la missione «Fruttero», ma non c’era nulla di idilliaco. I cacciabombardieri dovevano volare bassi, a 100 metri di altezza, in territorio siriano, con la strumentazione spenta, in silenzio radio, senza comunicare tra di loro. Fino all’ultimo i piloti erano stati tenuti all’oscuro dell’obiettivo. Sapevano però che avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo di una tremenda battaglia aerea, se Damasco avesse deciso di reagire. Non sapevano che il governo di Bashar al-Assad, per evitare imbarazzi, avrebbe invece deciso di far finta di nulla, e negare persino l’esistenza del reattore. E che la stessa Israele non avrebbe ammesso l’operazione. 

 

Ieri, invece, il governo israeliano ha deciso di rivelare tutto. Un «avvertimento» alla Siria e all’Iran, ora che i venti di guerra soffiano di nuovo forte: «Abbiamo colpito 11 anni fa, possiamo colpire ancora», è il messaggio. A carte scoperte i piloti hanno potuto ora raccontare le loro ore più tese e più belle. «Era un lungo volo, in una notte nera – ha rivelato il colonnello “Amir” ai media israeliani -. Volavamo in un ambiente ostile. Se il sistema anti-aereo siriano si fosse risvegliato, ci saremmo ritrovati in un nido di vipere». Dopo quasi due ore i piloti vedono il «Cubo», una struttura quadrata, 40 metri per 40, che nasconde il segreto del regime siriano. Damasco ci lavora dalla fine degli Anni Novanta. Ma gli israeliani l’hanno scoperto alla fine del 2006, ed è diventato la loro ossessione.  

 

Il Mossad era stato messo in allarme dall’accordo fra Muammar Gheddafi e gli Stati Uniti sullo smantellamento del programma nucleare libico, nel 2003. Gli israeliani erano rimasti all’oscuro. Cominciano a guardarsi attorno. Qualcun altro potrebbe aver avviato un programma simile. È la Siria. Assad ha attivato i contatti con i nordcoreani attraverso il capo della Commissione per l’energia atomica siriana, Ibrahim Othman. Nel marzo del 2007 Othman è a Vienna, a una riunione dell’Aiea. Il Mossad penetra nel suo appartamento. In pochi minuti «svuota» il suo computer. È la svolta. Documenti. E fotografie che dimostrano che dentro il Cubo si cela un reattore atomico a grafite, progettato per produrre plutonio. È un modello britannico, poi copiato dai nordcoreani e riprodotto a Yongbyon. Il Cubo è identico. 

 

Il capo dei Servizi, Meir Dagan, riferisce al premier Ehud Olmert. «Non è più tempo di punti di domanda ma di punti esclamativi», è la sintesi: «Che facciamo?». Olmert risponde: «Distruggiamolo». C’è poco tempo per preparare la missione. Il ministro della Difesa Ehud Bara frena, vuole essere sicuro. Alla fine è il capo di stato maggiore a convincerlo: «I nostri piloti sono i migliori al mondo, fidati». Olmert è in contatto con il presidente americano George W Bush. La Casa Bianca è divisa, il vicepresidente Dick Cheney vorrebbe che fosse l’America a colpire, per «dare un avvertimento» ai nemici, cioè l’Iran. Alla fine Bush dà l’ok all’operazione israeliana. 

 

E’ da poco passata la mezzanotte quando i piloti vedono il Cubo, grigio, confuso nell’oscurità. «Succede tutto in pochi secondi – racconta il colonnello “Amir” -. Tremende esplosioni illuminano la notte. Il sito è coperto di fumo, poi si vede che è demolito». Uno degli F-16 ha il compito di comunicare il successo alla base. La parola in codice è Arizona. Sono le 12 e 25. I piloti devono però tornare e a questo punto le difese siriane sono allertate. Puntano a Nord, verso la frontiera con la Turchia. La costeggiano a bassissima quota. Tutto sul filo, ma all’una e 30 gli aerei atterrano alla base. 

 

«Tutti saltavano su è giù – ricorda ancora il colonnello -. C’era un’euforia indescrivibile. Quando siamo atterrati ad attenderci c’era il comandante della base di Hatzerim, Shelly Gutman. Ci ha abbracciati e si è lasciato andare: “Siete i campioni”». Ora i piloti potranno essere decorati per la missione. Ma il racconto di quella notte ha un valore soprattutto politico. Come ha puntualizzato l’attuale capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot, la missione del 2007 è servita a ribadire la «dottrina Begin», cominciata con la distruzione del reattore di Saddam Hussein in Iraq nel 1981: «Israele non accetterà la costruzione di qualcosa in grado di minacciare la sua esistenza». L’Iran è avvertito.  

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
58 minuti fa, sol invictus ha scritto:

Era il segreto di Pulcinella. Ma ieri è giunta la conferma ufficiale da Israele. È stata l'aviazione israeliana a distruggere il reattore nucleare siriano nel 2007.

L'operazione contro il reattore siriano è stata la fotocopia della celebre Operazione Babilonia del 1981 nel corso della quale gli aerei con la stella di Davide distrussero il reattore nucleare iracheno di Osirak,  infliggendo un colpo mortale alle ambizioni nucleari di Saddam. Quella volta l'operazione fu ancora più spericolata, perché i caccia israeliani dovettero sorvolare una lunga fascia di deserto a cavallo tra la Giordania meridionale e l'Arabia Saudita per poi fare ritorno lungo la stessa strada con le difese aeree arabe già allertate anche se... già allora vi furono dei rumors circa la possibilità che i sauditi si fossero voltati dall'altra parte al passaggio dei caccia israeliani.

Nel caso del reattore siriano del 2007, invece, a voltarsi dall'altra parte potrebbero essere stati i turchi, visto che la rotta di ritorno dei caccia israeliani rasentava il confine meridionale della Turchia: cosa piuttosto plausibile considerato che allora tra Turchia e Israele vi erano ottimi rapporti e cooperazione militare. Erano lontani i tempi di Erdogan versione sultano ed ancora da venire l'incidente della Mavi Marmara che guastato per ora irrimediabilmente i rapporti tra Ankara e Gerusalemme.

Ad ogni modo la rivendicazione dell'attacco da parte di Israele è un chiaro segnale rivolto all'Iran che il tempo delle parole sta volgendo a termine.

 

Imho questo è l'ultimo avvertimento israeliano all'Iran. Dopo ieri, se Teheran dovesse tentare qualcosa di poco gradito ad Israele in territorio siriano, la risposta che riceverà non sarà verbale.

 

http://www.lastampa.it/2018/03/22/esteri/israele-svela-il-raid-contro-il-reattore-di-assad-e-mette-in-guardia-liran-sui-piani-nucleari-F4zF0GU5EOiLLXg77KDimO/pagina.html

 

 

 

A tal proposito 4 mesi fa ero a cena in un circolo ad Amman e con noi a tavola c'era un ex ufficiale, membro della sicurezza personale di Re Hussein negli anni 80. Tra le varie cose si mise a parlare proprio dell'attacco al reattore iracheno nel 1981. Disse che i giordani avvertirono l'Iraq perché capirono subito quello che stava accadendo ma dall'altra parte gli iracheni non si accorsero di nulla e probabilmente liquidarono il tutto come un falso allarme. Come te la spieghi una cosa del genere? Possibile che l'operazione prevedesse anche la corruzione di ufficiali iracheni per impedire/ritardare un'azione difensiva o qualcosa di simile? 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
56 minuti fa, JuventusOnly ha scritto:

A tal proposito 4 mesi fa ero a cena in un circolo ad Amman e con noi a tavola c'era un ex ufficiale, membro della sicurezza personale di Re Hussein negli anni 80. Tra le varie cose si mise a parlare proprio dell'attacco al reattore iracheno nel 1981. Disse che i giordani avvertirono l'Iraq perché capirono subito quello che stava accadendo ma dall'altra parte gli iracheni non si accorsero di nulla e probabilmente liquidarono il tutto come un falso allarme. Come te la spieghi una cosa del genere? Possibile che l'operazione prevedesse anche la corruzione di ufficiali iracheni per impedire/ritardare un'azione difensiva o qualcosa di simile? 

Tutto è possibile, naturalmente. Considera però che avvicinandosi all'obiettivo gli aerei volavano bassissimi,  quasi a filo del deserto sotto il limite dei radar, salvo poi in prossimità dell'obiettivo cabrare brutalmente verso l'alto ed in quella fase lanciare le bombe e tornare indietro, il tutto  in pochissimi minuti. Difficile se non impossibile in quella situazione vedere qualcosa e soprattutto predisporre una reazione efficace (a meno di non avere degli Awacs o simili, ma gli iracheni non li avevano).

Per avere una possibilità di neutralizzare l'attacco gli iracheni avrebbero dovuto avere i propri aerei già in volo, sulla rotta di avvicinamento degli israeliani,  anche perché con degli aerei che ti arrivano così bassi, sfuggendo ai radar, non puoi fare praticamente nulla fino a quando non li hai addosso: ed infatti le batterie di missili AA di cui l'Iraq disponeva in quel periodo erano praticamente inutili al di sotto dei 50÷100 metri. Tanto è vero che nell'82,  dopo Osirak, Saddam ricevette dai sovietici sistemi AA efficaci a partire da una quota minima di 25m (gli israeliani avevano volato sotto i 50m).

Quindi credo che sia dipeso tutto dal fatto che non li abbiano visti arrivare se non all'ultimo, quando oramai era troppo tardi e con le bombe già in volo verso la centrale. 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
29 minuti fa, sol invictus ha scritto:

Tutto è possibile, naturalmente. Considera però che avvicinandosi all'obiettivo gli aerei volavano bassissimi,  quasi a filo del deserto sotto il limite dei radar, salvo poi in prossimità dell'obiettivo cabrare brutalmente verso l'alto ed in quella fase lanciare le bombe e tornare indietro, il tutto  in pochissimi minuti. Difficile se non impossibile in quella situazione vedere qualcosa e soprattutto predisporre una reazione efficace (a meno di non avere degli Awacs o simili, ma gli iracheni non li avevano).

Per avere una possibilità di neutralizzare l'attacco gli iracheni avrebbero dovuto avere i propri aerei già in volo, sulla rotta di avvicinamento degli israeliani,  anche perché con degli aerei che ti arrivano così bassi, sfuggendo ai radar, non puoi fare praticamente nulla fino a quando non li hai addosso: ed infatti le batterie di missili AA di cui l'Iraq disponeva in quel periodo erano praticamente inutili al di sotto dei 50÷100 metri. Tanto è vero che nell'82,  dopo Osirak, Saddam ricevette dai sovietici sistemi AA efficaci a partire da una quota minima di 25m (gli israeliani avevano volato sotto i 50m).

Quindi credo che sia dipeso tutto dal fatto che non li abbiano visti arrivare se non all'ultimo, quando oramai era troppo tardi e con le bombe già in volo verso la centrale. 

Si si, quello sicuramente, infatti lessi anche di beduini nel deserto (non so se saudita, giordano o iracheno) che salutavano gli aerei convinti fossero delle loro forze armate! :patpat: Più che altro non mi spiego l'atteggiamento iracheno, se io Giordania ti dico che dei caccia israeliani stanno arrivando da te (quindi comunque ti ho dato un certo preavviso) dovresti scattare, non ignorare il tutto come se nulla fosse! 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Tra i tanti temi caldi del Medio Oriente di cui si parla poco in Europa c'è questo. Io non lo sottovaluterei troppo, rischia di diventare qualcosa di molto serio se, come dicono diversi analisti, causerà danni enormi all'Egitto.

 

La guerra per l’acqua del Nilo che coinvolge anche l’Italia

 

Vecchia_diga_assuan-1440x1080.jpg

 

Tra Egitto ed Etiopia rischia di scatenarsi una vera e propria guerra per l’acqua in cui c’è di mezzo anche l’Italia. Il motivo della contesa è il progetto di quella che sarà la diga più grande dell’Africa, che il governo etiope chiama “Grande diga del rinascimento etiope” e che sarà costruita dalla Salini Impregilo, colosso italiano delle infrastrutture complesse, sul Nilo Azzurro . La diga, che avrà la lunghezza di 1,8 chilometri e l’altezza di 155 metri, è considerato uno dei progetti infrastrutturali da parte del governo di Addis Abeba, che non solo dimostra a tutta regione del Corno d’Africa di essere il Paese più avanzato e con il tasso di crescita più alto, ma che sarà anche il pilastro che sorreggerà il progetto di un’enorme centrale idroelettrica da 6mila megawatt. Insomma, il governo di Addis Abeba considera la scelta di costruire questa infrastruttura come base fondamentale su cui consolidare la propria espansione economica e industriale, oltre che avere a disposizione risorse idriche ottimizzate e fruibili a tutta la popolazione. E per diventare, inoltre, un Paese produttore ed esportatore di energia elettrica.

 

Se però l’Etiopia considera questa diga come un passaggio ineluttabile per la propria crescita, i governi del Sudan e in particolare dell’Egitto sembrano avere delle idee completamente diverse. In particolare l’Egitto, il cui presidente Al Sisi ha definito la gestione dell’acqua come “questione di vota o di morte” ed ha confermato di considerare la disponibilità idrica del Nilo come un tema di sicurezza nazionale. E la discussione non sembra destinata a risolversi nel breve termine perché la scelta di contrattare sulle quote di acqua disponibile per gli Stati che riceveranno il flusso che passerà attraverso la diga è considerato di vitale importanza per le economie locali. L’agricoltura egiziana vive grazie al Nilo da millenni e non ha altre fonti d’acqua di grandi dimensioni. Come riporta Agi, l’Egitto riceve una quota annuale d’acqua pari a 55,5 miliardi di metri cubi e goni anno nel fiume ne scorrono 88. Con il progetto della diga, il rischio è che il governo etiope possa abbassare ulteriormente la quota d’acqua garantita, possedendo, di fatto, una leva di fondamentale importanza per lo sviluppo egiziano. E non a caso a novembre al Sisi aveva già avvertito Addis Abeba con toni amichevoli ma molto decisi: “Valutiamo positivamente le necessità di sviluppo dei nostri amici e fratelli in Etiopia ma siamo in grado di proteggere la nostra sicurezza nazionale e l’acqua per noi è una questione di sicurezza nazionale. Punto.”

 

La risoluzione non è dietro l’angolo perché nessuno vuole fare un passo indietro. Al Sisi parla di “questione di vita o di morte”, ma lo ha detto anche  il ministro degli Esteri etiope in risposta al presidente egiziano, usando le stesse parole del leader del Cairo. E con le parole del ministro degli Esteri, sono arrivate anche le parole del ministro dell’Irrigazione dell’Etiopia, Seleshi Bekele, che ha dichiarato che “la costruzione non si è mai fermata e non si fermerà”, e ha continuando dicendo: “Non siamo preoccupati da quello che pensa l’Egitto, l’Etiopia intende beneficiare delle proprie risorse idriche senza recare danno a nessuno”. Finora c’è stato un approccio diplomatico, ma il tema non sembra affatto di poco conto. L’acqua è una risorsa strategica di primaria importanza per qualunque Stato, specie per Paesi africani dove essa ha una distribuzione inferiore. Un Paese con la possibilità di bloccare, potenzialmente, il flusso di un fiume come il Nilo Azzurro, ha una capacità negoziale decisiva. E questo tema è particolarmente sentito fra due Stati come Egitto ed Etiopia (il Sudan è interessato ma ha un potere contrattuale ancora inferiore) che si contendono quote di mercato importanti sul fronte dell’Africa occidentale e nordoccidentale. Addis Abeba cresce a ritmi molto alti, soprattutto per gli enormi investimenti cinesi, mentre l’Egitto ha un’instabilità latente in cui una crisi idrica o agricola può far di nuovo scoppiare una crisi politica molto seria. In gioco c’è l’equilibrio di una regione già di per sé fragile e complessa, dove l’Italia, fra l’altro, può dire la sua. I legami diplomatici con l’Etiopia uniti alla presenza di Salini Impregilo come società appaltatrice sono ottime basi da cui l’Italia può trarre un ruolo di mediazione tra Addis Abeba, Il Cairo e Khartoum.

 

Fonte

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
17 minuti fa, JuventusOnly ha scritto:

Si si, quello sicuramente, infatti lessi anche di beduini nel deserto (non so se saudita, giordano o iracheno) che salutavano gli aerei convinti fossero delle loro forze armate! :patpat: Più che altro non mi spiego l'atteggiamento iracheno, se io Giordania ti dico che dei caccia israeliani stanno arrivando da te (quindi comunque ti ho dato un certo preavviso) dovresti scattare, non ignorare il tutto come se nulla fosse! 

Si, in astratto è vero. C'è però da tenere conto di una cosa: delle  procedure estremamente gerarchizzato del sistema di C3 iracheno (Comando,  Controllo, Comunicazione) modellato esattamente su quello sovietico che non prevedeva alcuna autonomia individuale e tutto doveva passare, in andata ed in ritorno attraverso una catena di comando rigida priva della benché minima elasticità.  I subordinati, ai livelli medio-bassi erano dei semplici esecutori di ordini e nessuno di loro avrebbe mai osato prendere una decisione autonoma in assenza di una luce verde da parte del suo diretto superiore (tipo, chessò, fare decollare una squadriglia di aerei) perché avrebbe rischiato di rimetterci la testa: ed in una situazione che si gioca sul filo dei minuti diventa un problema insormontabile: in pratica per coprire i 1.600km da Eilat ad Osirak ,  volando attorno a mach1 ci vogliono circa 80 minuti, ed anche se dalla Giordania l'allarme fosse partito immediatamente  al decollo (ma pare che l'allarme sia stato dato quando gli aerei erano già in volo), prima che fosse ricevuto da qualcuno in Iraq in possesso di poteri decisionali (Saddam o la sua cerchia di comandanti), poi presa la decisione su come reagire (grosso problema se non sai precisamente da dove ti stanno arrivando addosso) e quindi trasmessi gli ordini necessari verso il basso, attraverso la catena di comando, ecco che gli 80 minuti  sono belli che passati. 

Il sistema gerarchizzato verticale è sempre stato il punto debole del C3 sovietico (e quindi iracheno), tanto è vero  che la prima mossa durante desert Storm è stata di colpire i centri di comando e trasmissione iracheni. Una volta disarticolato questo tipo di sistema, con gli ordini che non partono e non arrivano e con nessuno che sa cosa fare,  i reparti sul terreno sono fregati, ciechi, sordi e muti:  possono certamente sparare,  ma lo fanno a casaccio senza sapere né  dove né quando, e finiscono sbranati vivi quasi senza accorgersene.

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
16 minuti fa, JuventusOnly ha scritto:

Tra i tanti temi caldi del Medio Oriente di cui si parla poco in Europa c'è questo. Io non lo sottovaluterei troppo, rischia di diventare qualcosa di molto serio se, come dicono diversi analisti, causerà danni enormi all'Egitto.

 

La guerra per l’acqua del Nilo che coinvolge anche l’Italia

 

Vecchia_diga_assuan-1440x1080.jpg

 

Tra Egitto ed Etiopia rischia di scatenarsi una vera e propria guerra per l’acqua in cui c’è di mezzo anche l’Italia. Il motivo della contesa è il progetto di quella che sarà la diga più grande dell’Africa, che il governo etiope chiama “Grande diga del rinascimento etiope” e che sarà costruita dalla Salini Impregilo, colosso italiano delle infrastrutture complesse, sul Nilo Azzurro . La diga, che avrà la lunghezza di 1,8 chilometri e l’altezza di 155 metri, è considerato uno dei progetti infrastrutturali da parte del governo di Addis Abeba, che non solo dimostra a tutta regione del Corno d’Africa di essere il Paese più avanzato e con il tasso di crescita più alto, ma che sarà anche il pilastro che sorreggerà il progetto di un’enorme centrale idroelettrica da 6mila megawatt. Insomma, il governo di Addis Abeba considera la scelta di costruire questa infrastruttura come base fondamentale su cui consolidare la propria espansione economica e industriale, oltre che avere a disposizione risorse idriche ottimizzate e fruibili a tutta la popolazione. E per diventare, inoltre, un Paese produttore ed esportatore di energia elettrica.

 

Se però l’Etiopia considera questa diga come un passaggio ineluttabile per la propria crescita, i governi del Sudan e in particolare dell’Egitto sembrano avere delle idee completamente diverse. In particolare l’Egitto, il cui presidente Al Sisi ha definito la gestione dell’acqua come “questione di vota o di morte” ed ha confermato di considerare la disponibilità idrica del Nilo come un tema di sicurezza nazionale. E la discussione non sembra destinata a risolversi nel breve termine perché la scelta di contrattare sulle quote di acqua disponibile per gli Stati che riceveranno il flusso che passerà attraverso la diga è considerato di vitale importanza per le economie locali. L’agricoltura egiziana vive grazie al Nilo da millenni e non ha altre fonti d’acqua di grandi dimensioni. Come riporta Agi, l’Egitto riceve una quota annuale d’acqua pari a 55,5 miliardi di metri cubi e goni anno nel fiume ne scorrono 88. Con il progetto della diga, il rischio è che il governo etiope possa abbassare ulteriormente la quota d’acqua garantita, possedendo, di fatto, una leva di fondamentale importanza per lo sviluppo egiziano. E non a caso a novembre al Sisi aveva già avvertito Addis Abeba con toni amichevoli ma molto decisi: “Valutiamo positivamente le necessità di sviluppo dei nostri amici e fratelli in Etiopia ma siamo in grado di proteggere la nostra sicurezza nazionale e l’acqua per noi è una questione di sicurezza nazionale. Punto.”

 

La risoluzione non è dietro l’angolo perché nessuno vuole fare un passo indietro. Al Sisi parla di “questione di vita o di morte”, ma lo ha detto anche  il ministro degli Esteri etiope in risposta al presidente egiziano, usando le stesse parole del leader del Cairo. E con le parole del ministro degli Esteri, sono arrivate anche le parole del ministro dell’Irrigazione dell’Etiopia, Seleshi Bekele, che ha dichiarato che “la costruzione non si è mai fermata e non si fermerà”, e ha continuando dicendo: “Non siamo preoccupati da quello che pensa l’Egitto, l’Etiopia intende beneficiare delle proprie risorse idriche senza recare danno a nessuno”. Finora c’è stato un approccio diplomatico, ma il tema non sembra affatto di poco conto. L’acqua è una risorsa strategica di primaria importanza per qualunque Stato, specie per Paesi africani dove essa ha una distribuzione inferiore. Un Paese con la possibilità di bloccare, potenzialmente, il flusso di un fiume come il Nilo Azzurro, ha una capacità negoziale decisiva. E questo tema è particolarmente sentito fra due Stati come Egitto ed Etiopia (il Sudan è interessato ma ha un potere contrattuale ancora inferiore) che si contendono quote di mercato importanti sul fronte dell’Africa occidentale e nordoccidentale. Addis Abeba cresce a ritmi molto alti, soprattutto per gli enormi investimenti cinesi, mentre l’Egitto ha un’instabilità latente in cui una crisi idrica o agricola può far di nuovo scoppiare una crisi politica molto seria. In gioco c’è l’equilibrio di una regione già di per sé fragile e complessa, dove l’Italia, fra l’altro, può dire la sua. I legami diplomatici con l’Etiopia uniti alla presenza di Salini Impregilo come società appaltatrice sono ottime basi da cui l’Italia può trarre un ruolo di mediazione tra Addis Abeba, Il Cairo e Khartoum.

 

Fonte

non pensavo che l'Etiopia avesse una tale influenza sul Nilo..... questa mi è nuova proprio! Al Sisi poi è un tipo pericoloso, se dovesse andare in un modo che non piace a lui, non so come finirà...

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
41 minuti fa, Pogba88 ha scritto:

non pensavo che l'Etiopia avesse una tale influenza sul Nilo..... questa mi è nuova proprio! Al Sisi poi è un tipo pericoloso, se dovesse andare in un modo che non piace a lui, non so come finirà...

Il Nilo praticamente nasce in buona parte in Etiopia (Nilo Azzurro), quindi l'Etiopia ha eccome una grande influenza sul Nilo, però fino a pochi anni fa la soggezione verso l'Egitto era molto grande e l'Etiopia era un paese senza grandi piani di sviluppo. Ora l'Egitto fa meno paura e l'Etiopia, giustamente in un certo senso, pensa al suo sviluppo. Però si sa com'è, quando il tuo benessere significa mio malessere può finire male! 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
20 minuti fa, JuventusOnly ha scritto:

Il Nilo praticamente nasce in buona parte in Etiopia (Nilo Azzurro), quindi l'Etiopia ha eccome una grande influenza sul Nilo, però fino a pochi anni fa la soggezione verso l'Egitto era molto grande e l'Etiopia era un paese senza grandi piani di sviluppo. Ora l'Egitto fa meno paura e l'Etiopia, giustamente in un certo senso, pensa al suo sviluppo. Però si sa com'è, quando il tuo benessere significa mio malessere può finire male! 

è una catena senza fine .doh

 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Come anticipato nel mio post del 17/3 è giunta l'ora del siluramento da parte di Trump del suo consigliere alla sicurezza nazionale,  generale McMaster.

Continua dunque la giostra di nomine e dimissioni nel Reality Trump. .ballerina  .ballerina

 

La decisione è già stata comunicata a McMaster,  che lascerà il suo incarico il prossimo 9/4. Dopo 14 mesi si chiude quindi il sodalizio tra Trump e McMaster,  brillante teorico militare che aveva sostituito Michael Flynn costretto alle dimissioni per le sue implicazioni nel Russiagate,  ma che con Trump non era era mai entrato in sintonia. 

 

https://mobile.twitter.com/realDonaldTrump

 

 

Al suo posto, come già era nell'aria, è stato nominato, con annuncio via tweet, l'ex-ambasciatore USA all'ONU, John Bolton, noto per le sue posizioni un tantinello ( .db ) radicali su Iran e Corea del Nord. 

Bolton era stato una delle figure più vicine a Cheney ai tempi della presidenza Bush jr ed è uno degli ultimi sopravvissuti della corrente neocon,  spazzata via dai casini in Iraq e dalla presidenza Obama. 

Decisamente ruvido come carattere, Bolton è sicuramente l'elemento perfetto per mandare in corto circuito i rapporti, già precari tra USA  e Iran.  Nel gennaio scorso, intervistato da Fox News disse infatti:

 

 



In January, Bolton told Fox News that Trump should dump the nuclear deal, reimpose economic sanctions on Tehran, and work toward an overthrow of the government there.

 

“There’s a lot we can do, and we should do it,” Bolton said. “Our goal should be regime change in Iran.” He similarly called for bombing Iran in a New York Times editorial in 2015.

 

Una cosa si può dire: ultimamente alla Casa Bianca non ci si annoia mai e come in ogni buon reality che si rispetti si aspetta solo la prossima puntata per scoprire chi verrà nominato.  You Are Fired!  .redcard

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Le ferite autoinflitte di Israele

di Ronald S. Lauder

 

Il 18 marzo 2018, il Presidente del Congresso Mondiale Ebraico Ronald S. Lauder ha confidato al New York Times le sue preoccupazioni per il futuro dello Stato di Israele, minacciato, a suo dire, dal venir meno della soluzione dei due Stati e dall'affermazione di una politica sempre più condizionata dai voleri degli "ultraortodossi", contrari a uno stato pluralistico e laico. Proponiamo il suo intervento tradotto.

Mentre si avvicina il 70° anniversario della fondazione dello Stato di Israele, mi sento davvero orgoglioso vedendo come il vulnerabile Stato ebraico della mia infanzia si sia evoluto per diventare la forte e prospera nazione di oggi.

In qualità di Presidente del World Jewish Congress, credo che Israele sia essenziale per l’identità di ogni ebreo, e per me è una seconda casa, tuttavia al giorno d’oggi temo per il futuro della nazione che amo.

È vero, l’Esercito Israeliano è più forte di qualsiasi altro esercito nel Medio Oriente e, naturalmente, l’eccellenza economica di Israele è rinomata nel mondo. In Cina, India e nella Silicon Valley, la tecnologia, le innovazioni e l’imprenditorialità di Israele sono venerate. Tuttavia lo Stato democratico di Israele affronta due gravi minacce alla sua stessa esistenza.

La prima è il possibile abbandono della soluzione dei due Stati. Io sono un conservatore e un repubblicano, e ho sostenuto il Likud fin dagli anni ’80, ma la realtà è che 13 milioni di persone vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo e quasi la metà sono palestinesi. Se l’attuale tendenza continua, Israele si troverà davanti a una scelta dura: garantire ai palestinesi pieni diritti e cessare di essere uno Stato ebraico o rescindere i loro diritti e cessare di essere una democrazia. Per evitare questi esiti inaccettabili, l’unica via è la soluzione dei due Stati.

Il Presidente Trump e la sua squadra hanno preso un impegno stringente verso la pace in Medio Oriente. Gli Stati arabi come l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ora sono più vicini a Israele di quanto lo siano mai stati in passato, e contrariamente a quanto riportato da molti media, i leader palestinesi più importanti sono – e me l’hanno detto di persona – pronti a iniziare negoziati diretti. Tuttavia alcuni israeliani e palestinesi stanno portando avanti con insistenza iniziative che minacciano di compromettere questa opportunità.

Le provocazioni e l’intransigenza palestinesi sono distruttive, ma lo stesso si deve dire dei piani di annessione promossi dalla destra, e dall’ampio lavoro di costruzione di insediamenti oltre la linea di separazione. Negli ultimi anni, gli insediamenti nella West Bank che secondo qualsiasi accordo diventerebbe molto probabilmente parte di uno stato palestinese, hanno continuato a crescere ed espandersi. Tali politiche israeliane miopi stanno creando una realtà a un solo stato irreversibile.

La seconda, duplice minaccia è costituita dalla capitolazione di Israele davanti agli estremisti religiosi e dalla crescente disaffezione della diaspora ebraica. La maggior parte degli ebrei residenti fuori Israele non sono ben accetti agli occhi degli ultraortodossi israeliani, che controllano la vita rituale e i luoghi santi dello Stato. Sette su otto milioni di ebrei che vivono in America, Europa, Sud America, Africa e Australia sono ortodossi moderni, conservatori, riformati o laici. Molti di loro sentono, particolarmente negli ultimi anni, che la nazione che hanno sostenuto politicamente, finanziariamente e spiritualmente sta voltando loro le spalle.

Cedendo alle pressioni esercitate da una minoranza in Israele, lo Stato ebraico si sta alienando un ampio segmento del popolo ebraico. La crisi è particolarmente pronunciata nelle giovani generazioni, che sono prevalentemente laiche. Un numero sempre più consistente di millennial ebrei – particolarmente negli Stati Uniti – sta prendendo le distanze da Israele per via del fatto che le sue politiche sono contrarie ai loro valori. Il risultato non sorprende: assimilazione, alienazione e una grave erosione dell’affinità della popolazione ebraica globale con la patria ebraica.

Nell’ultimo decennio ho incontrato le comunità ebraiche di oltre 40 Paesi. In ognuna diversi appartenenti mi hanno espresso la loro preoccupazione e ansia per il futuro di Israele e il suo rapporto con l’ebraismo della diaspora.

Molti ebrei non ortodossi, me compreso, avvertono che la diffusione della religiosità imposta dallo Stato di Israele sta trasformando una nazione moderna e liberale in una quasi teocratica. Un’ampia maggioranza di ebrei nel mondo non accetta l’esclusione delle donne da certe pratiche religiose, le rigide regole per la conversione o il divieto di preghiere eguali per tutti al Muro Occidentale. Sono sconcertati dall’impressione che Israele stia abbandonando la visione umanistica di Theodor Herzl e assumendo un carattere non confacente ai suoi valori fondamentali o allo spirito del 21° secolo.

La leadership dello Stato ebraico onora sempre le scelte fatte dall’elettore israeliano e agisce con il governo di Israele democraticamente eletto. Sono anche profondamente conscio che gli israeliani siano in prima linea, e rischino la vita ogni giorno perché gli ebrei del mondo possano sopravvivere e prosperare. Io sono il primo a voler esprimere la mia gratitudine.

Eppure, a volte, la lealtà richiede le parole di un buon amico capaci anche di sottolineare una realtà scomoda. E la verità è che lo spettro di una soluzione a uno Stato e la frattura crescente tra Israele e la diaspora stanno mettendo a rischio il futuro del Paese che amo così profondamente.

Siamo a un bivio. Le scelte che Israele compirà nei prossimi anni determineranno il destino del nostro unico, anche per qualità, Stato ebraico – e il proseguimento dell’unità del nostro popolo amato.

Dobbiamo cambiare direzione. Dobbiamo promuovere una soluzione a due Stati e trovare un terreno comune per assicurare il successo della nostra amata nazione.

 

condivido 80% di questo articolo

essendo un copia incolla non è opera mia il grassetto

mi piacerebbe sapere l'opinione di sol invictus esperto di cose israeliane

 

 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Ecco qui un altro articolo su Bolton:

 

I veri piani di John Bolton, "ambasciatore con l'elmetto" che vuole ridisegnare il Medio Oriente

Soluzione "a tre stati", "Sunnistan" e guerra per procura all'Iran. Chi è e cosa vuole il nuovo consigliere di Trump alla Sicurezza nazionale

 23/03/2018 15:56 CET | Aggiornato 2 ore fa
http%3A%2F%2Fo.aolcdn.com%2Fhss%2Fstorage%2Fmidas%2F549b3b895525b176a11116ca53f57571%2F206238286%2Fjohn-bolton-former-us-ambassador-to-the-united-nations-speaks-during-picture-id936806502
BLOOMBERG VIA GETTY IMAGES
John Bolton

Pensa al futuro con le convinzioni del passato. E con una ferrea coerenza che ha resistito alle dure lezioni della Storia. Il cacciatore di (false) pistole fumanti rientra in pista. E alla grande: consigliere alla Sicurezza nazionale degli Stati Uniti d'America. John Bolton è tornato. E il Medio Oriente fibrilla. Perché l'uomo che progettò l'invasione dell'Iraq, quando era ambasciatore Usa all'Onu sotto la presidenza di George W.Bush, ha oggi messo nel mirino un altro regime da abbattere: quello teocratico-militare dell'Iran. Roba che fa apparire il neosegretario di Stato, ex capo della Cia, il conservatore Mike Pompeo se non una colomba, una mammoletta, e il segretario alla Difesa, il generale dei Marines James Mattis, un pacifista. Perché Bolton quello che pensa, dice. E quello che dice, fa. E quando afferma che "l'obiettivo degli Stati Uniti dovrebbe essere il cambiamento del regime a Teheran", non solo si deve prendere con serietà questa affermazione ma a ciò va accompagnata la certezza che il prossimo (dal 9 aprile) consigliere alla Sicurezza nazionale di Trump farà in modo che quelle profferite non rimangano soltanto parole. Il primo passo si può ormai dare per certo. La formalizzazione è solo questione di tempo: entro maggio, comunque.

 

Il duo Bolton&Pompeo è posizionato saldamente sulla linea della disdetta, anche unilaterale se è il caso, dell'accordo sul nucleare con l'Iran siglato dal Gruppo5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), accordo fortemente voluto dall'allora inquilino della Casa Bianca, Barack Obama. Un primo passo di una strategia di attacco che punta a un'opera di contrasto della presenza iraniana in Siria attraverso nuovi aiuti militari ai ribelli non jihadisti anti-Assad e un sostegno politico a nuovi raid dei caccia israeliani contro basi dei Pasdaran in Siria e contro Hezbollah.

A tutto ciò, Bolton intende accompagnare, in totale sintonia con Pompeo, un inasprimento delle sanzioni economiche contro l'Iran, mettendo nel mirino anche il riarmo missilistico in atto, oltre che il sostegno offerto da Teheran agli Houthi in Yemen, ad Hamas in Palestina, al Partito di dio libanese.

 

Con Bolton, l'Iran diviene il paradigma di un cambio radicale di visione in politica estera da parte dell'amministrazione Trump: una visione marcatamente interventista, che tiene assieme la guerra dei dazi dichiarata contro il Dragone cinese e un nuovo protagonismo Usa nel Grande Medio Oriente, dall'Afghanistan (Bolton si è speso per un prolungamento/rafforzamento della presenza militare americana) alla Siria, dall'Iraq al Golfo Persico.

Bolton rafforzerà ulteriormente i già solidi legami con Israele. Anche qui: parole che sanno di sentenza. Inappellabile. "La soluzione a due Stati è morta", ha proclamato più volte, anche nei giorni precedenti alla sua nuova nomina, Bolton. Convinzione condivisa con Pompeo e che fa del neo consigliere alla Sicurezza nazionale il più solido punto di riferimento per il governo di Gerusalemme e per la destra ultranazionalista israeliana. Ma la novità non è in quella che, a ben vedere, è una constatazione di fatto: che gli Accordi di Oslo-Washington siano falliti è un giudizio che accomuna, sia pur con motivazioni opposte, la leadership palestinese e quella israeliana, Netanyahu e Abu Mazen. Ma Bolton si proietta al di là della presa d'atto e avverte la necessità di elaborare una nuova strategia: quella "a tre Stati". È lui stesso a indicarli: Israele, naturalmente, Gaza che passerebbe all'Egitto e la West Bank (esclusi tre grandi blocchi di insediamenti che rientrerebbero nei nuovi confini dello Stato ebraico) che torna a far parte della Giordania. Che poi questa prospettiva non incontri l'entusiasmo né del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e tanto meno di re Abdallah II di Giordania, per Bolton è un aspetto secondario. L'importante è aver chiara la direzione di marcia. Che azzera ogni aspirazione palestinese a un proprio stato, con o senza Gerusalemme est come capitale.

 

"Bolton ha reso ancora più esplicita la linea di Trump, che cancella il diritto del popolo palestinese ad uno Stato, nega due risoluzioni dell'Onu, pur se votate dagli Usa, e sposa totalmente non solo la linea ma le basi ideologiche della destra nazionalista d'Israele", dice ad HP Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp e storico capo negoziatore palestinese. "Il processo di pace in Medio Oriente ha da tempo bisogno di chiarezza e di un'iniezione di realtà, e Trump l'ha fornita prendendo la decisione di trasferire l'ambasciata degli Stati Uniti in Israele a Gerusalemme", aveva twittato Bolton dopo che Trump aveva annunciato la sua decisione. E ancora: "Finché l'obiettivo diplomatico di Washington è la 'soluzione a due stati' - Israele e 'Palestina' - la contraddizione fondamentale tra questa aspirazione e la realtà sul terreno garantirà che non venga mai in essere", aveva scritto sul Washington Post criticando la posizione dell'amministrazione Obama.

 

Testuale: " L'unica logica alla base della richiesta di uno Stato palestinese è l'imperativo politico degli oppositori di Israele di indebolire e accerchiare lo Stato ebraico, riducendo così al minimo il suo potenziale di stabilire confini sicuri e difendibili. L'ironia più crudele è che usando il popolo palestinese come la punta della lancia contro Israele, i loro supposti difensori hanno causato ai palestinesi sofferenze estese. Il loro benessere economico, il loro potenziale di sviluppo e la prospettiva di vivere sotto un governo non corrotto e rappresentativo sono stati persi nella mescolanza di sfidare il vero diritto di Israele di esistere...". Più chiaro di così.

 

La stessa determinazione, Bolton la pratica con l'Iran. "Il nostro obiettivo dovrebbe essere il cambio di regime in Iran", ha sostenuto Bolton a Fox News all'inizio di quest'anno, nel vivo delle proteste anti-governative in Iran. "Se l'opposizione iraniana è disposta a prendere sostegno esterno, gli Stati Uniti dovrebbero fornirglielo", aveva twittato all'epoca.

Quanto all'accordo sul nucleare, il Bolton-pensiero non si presta a equivoci: "L'accordo sul nucleare iraniano è stato un errore strategico nel 2015. Questo accordo deve essere abrogato e l'America deve creare una nuova realtà che contrasti il riarmo e l'espansionismo" iraniano in Medio Oriente.

 

Ambasciatore, certo, ma soprattutto uomo d'azione. Militare. Magari per procura. Bolton, infatti, ha anche difeso la possibilità, tutt'altro che remota, che Israele attacchi l'Iran per contenere le sue ambizioni nucleari: "Il tempo è terribilmente breve, ma uno strike può ancora avere successo", ha scritto sul New York Times nel 2015.

Bolton ha idee chiare anche sul futuro della Siria. "La migliore alternativa allo Stato islamico nel nord-est della Siria e nell'Iraq occidentale è un nuovo e indipendente Stato sunnita", ebbe a dichiarare. Oltre a questo "Sunnistan", Bolton ipotizza un Kurdistan indipendente (ma su questo la Turchia di Erdogan ha molto da eccepire). Le altre realtà che si verrebbero a creare, non citate esplicitamente da Bolton, sono uno Stato sciita nel centro-sud dell'Iraq (che sarebbe inevitabilmente un satellite dell'Iran) e una striscia in Siria, nei pressi delle basi russe di Latakia, in cui assicurare una sopravvivenza al clan alawita degli Assad. Così come sul versante israelo-palestinese, anche sul fronte siriano, Bolton prende atto della realtà – la Siria come Stato fallito – ma da questa presa d'atto elabora una strategia d'attacco. Di certo, non si può annoverare tra i difensori dello status quo. Il piano-Bolton non dispiacerebbe alla Russia che vedrebbe riconosciuti i suoi interessi in Siria, e ciò potrebbe portare a una "Jalta mediorientale" che vedrebbe Trump e Putin come alleati e non come competitori. L'"ambasciatore con l'elmetto" pensa in grande. Che sia un bene per la stabilizzazione in Medio Oriente, questo è tutt'altro discorso.

 

Huffington post

 

Mah sono scettico. Trump lo ho sostenuto per molti aspetti ma questo tizio non sembra quello giusto. E poi è un neocon...brutta razza

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
16 ore fa, Vonpalace ha scritto:

Le ferite autoinflitte di Israele

di Ronald S. Lauder

 

Il 18 marzo 2018, il Presidente del Congresso Mondiale Ebraico Ronald S. Lauder ha confidato al New York Times le sue preoccupazioni per il futuro dello Stato di Israele, minacciato, a suo dire, dal venir meno della soluzione dei due Stati e dall'affermazione di una politica sempre più condizionata dai voleri degli "ultraortodossi", contrari a uno stato pluralistico e laico. Proponiamo il suo intervento tradotto.

Mentre si avvicina il 70° anniversario della fondazione dello Stato di Israele, mi sento davvero orgoglioso vedendo come il vulnerabile Stato ebraico della mia infanzia si sia evoluto per diventare la forte e prospera nazione di oggi.

In qualità di Presidente del World Jewish Congress, credo che Israele sia essenziale per l’identità di ogni ebreo, e per me è una seconda casa, tuttavia al giorno d’oggi temo per il futuro della nazione che amo.

È vero, l’Esercito Israeliano è più forte di qualsiasi altro esercito nel Medio Oriente e, naturalmente, l’eccellenza economica di Israele è rinomata nel mondo. In Cina, India e nella Silicon Valley, la tecnologia, le innovazioni e l’imprenditorialità di Israele sono venerate. Tuttavia lo Stato democratico di Israele affronta due gravi minacce alla sua stessa esistenza.

La prima è il possibile abbandono della soluzione dei due Stati. Io sono un conservatore e un repubblicano, e ho sostenuto il Likud fin dagli anni ’80, ma la realtà è che 13 milioni di persone vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo e quasi la metà sono palestinesi. Se l’attuale tendenza continua, Israele si troverà davanti a una scelta dura: garantire ai palestinesi pieni diritti e cessare di essere uno Stato ebraico o rescindere i loro diritti e cessare di essere una democrazia. Per evitare questi esiti inaccettabili, l’unica via è la soluzione dei due Stati.

Il Presidente Trump e la sua squadra hanno preso un impegno stringente verso la pace in Medio Oriente. Gli Stati arabi come l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ora sono più vicini a Israele di quanto lo siano mai stati in passato, e contrariamente a quanto riportato da molti media, i leader palestinesi più importanti sono – e me l’hanno detto di persona – pronti a iniziare negoziati diretti. Tuttavia alcuni israeliani e palestinesi stanno portando avanti con insistenza iniziative che minacciano di compromettere questa opportunità.

Le provocazioni e l’intransigenza palestinesi sono distruttive, ma lo stesso si deve dire dei piani di annessione promossi dalla destra, e dall’ampio lavoro di costruzione di insediamenti oltre la linea di separazione. Negli ultimi anni, gli insediamenti nella West Bank che secondo qualsiasi accordo diventerebbe molto probabilmente parte di uno stato palestinese, hanno continuato a crescere ed espandersi. Tali politiche israeliane miopi stanno creando una realtà a un solo stato irreversibile.

La seconda, duplice minaccia è costituita dalla capitolazione di Israele davanti agli estremisti religiosi e dalla crescente disaffezione della diaspora ebraica. La maggior parte degli ebrei residenti fuori Israele non sono ben accetti agli occhi degli ultraortodossi israeliani, che controllano la vita rituale e i luoghi santi dello Stato. Sette su otto milioni di ebrei che vivono in America, Europa, Sud America, Africa e Australia sono ortodossi moderni, conservatori, riformati o laici. Molti di loro sentono, particolarmente negli ultimi anni, che la nazione che hanno sostenuto politicamente, finanziariamente e spiritualmente sta voltando loro le spalle.

Cedendo alle pressioni esercitate da una minoranza in Israele, lo Stato ebraico si sta alienando un ampio segmento del popolo ebraico. La crisi è particolarmente pronunciata nelle giovani generazioni, che sono prevalentemente laiche. Un numero sempre più consistente di millennial ebrei – particolarmente negli Stati Uniti – sta prendendo le distanze da Israele per via del fatto che le sue politiche sono contrarie ai loro valori. Il risultato non sorprende: assimilazione, alienazione e una grave erosione dell’affinità della popolazione ebraica globale con la patria ebraica.

Nell’ultimo decennio ho incontrato le comunità ebraiche di oltre 40 Paesi. In ognuna diversi appartenenti mi hanno espresso la loro preoccupazione e ansia per il futuro di Israele e il suo rapporto con l’ebraismo della diaspora.

Molti ebrei non ortodossi, me compreso, avvertono che la diffusione della religiosità imposta dallo Stato di Israele sta trasformando una nazione moderna e liberale in una quasi teocratica. Un’ampia maggioranza di ebrei nel mondo non accetta l’esclusione delle donne da certe pratiche religiose, le rigide regole per la conversione o il divieto di preghiere eguali per tutti al Muro Occidentale. Sono sconcertati dall’impressione che Israele stia abbandonando la visione umanistica di Theodor Herzl e assumendo un carattere non confacente ai suoi valori fondamentali o allo spirito del 21° secolo.

La leadership dello Stato ebraico onora sempre le scelte fatte dall’elettore israeliano e agisce con il governo di Israele democraticamente eletto. Sono anche profondamente conscio che gli israeliani siano in prima linea, e rischino la vita ogni giorno perché gli ebrei del mondo possano sopravvivere e prosperare. Io sono il primo a voler esprimere la mia gratitudine.

Eppure, a volte, la lealtà richiede le parole di un buon amico capaci anche di sottolineare una realtà scomoda. E la verità è che lo spettro di una soluzione a uno Stato e la frattura crescente tra Israele e la diaspora stanno mettendo a rischio il futuro del Paese che amo così profondamente.

Siamo a un bivio. Le scelte che Israele compirà nei prossimi anni determineranno il destino del nostro unico, anche per qualità, Stato ebraico – e il proseguimento dell’unità del nostro popolo amato.

Dobbiamo cambiare direzione. Dobbiamo promuovere una soluzione a due Stati e trovare un terreno comune per assicurare il successo della nostra amata nazione.

 

condivido 80% di questo articolo

essendo un copia incolla non è opera mia il grassetto

mi piacerebbe sapere l'opinione di sol invictus esperto di cose israeliane

 

 

Grazie, ma non sopravvalutarmi. ;) 

 

La soluzione "due popoli due stati" secondo me continua ad essere l'unica via praticabile, anche se sia da una parte che dall'altra vi sono voci che la considerano oramai non più attuabile. 

Personalmente sono contrario sia all'idea di uno stato binazionale (comprendente l'attuale Israele + il West Bank), sia ad uno stato federale (formato da due stati -Israele e Palestina- uniti da istituzioni comuni con Gerusalemme come territorio federale). Sono contrario anche ad ipotesi strampalate, quali la formazione di "cantoni etnici" sul modello bosniaco legati da una presidenza federale, o a qualsiasi altra ipotesi che punti a mescolare israeliani e palestinesi, ovvero ebrei e arabi.

 

Io credo debbano esistere due stati indipendenti e sovrani reciprocamente riconosciuti e che questi due stati debbano interagire tra di loro sulla base di commissioni bilaterali di collaborazione e sviluppo (o magari trilaterali con presenza di una parte mediatrice) incentrate su temi di reciproco interesse: penso ad esempio ad una commissione economica, per incentivare gli investimenti israeliani nel West Bank e l'afflusso di lavoratori palestinesi in Israele; una commissione sicurezza per il contrasto al terrorismo ed al fondamentalismo; una commissione per le acque, per la gestione del Giordano e del mar Morto, che è in sofferenza ecologica; una commissione trasporti, per uniformare e sviluppare il sistema trasporti tra Israele e Palestina e consentire lo sbocco di merci palestinesi nel porto di Haifa -in pratica un corridoio economico verso il Mediterraneo; una commissione turistico-culturale per Gerusalemme e luoghi santi. Ce ne potrebbero essere anche altre (scuola-università, sport, energia...).

Tutto questo tuttavia deve essere preceduto da alcuni passi preventivi reciproci, a loro volta funzionali al rispetto di due macro-concetti fondamentali e cioè:

 

A) garantire la sicurezza di Israele come conditio sine qua non

B) garantire la possibilità di una fattibile vita economica e sociale allo stato palestinese (che quindi non deve essere un semplice bantustan ma uno stato in grado di funzionare come tale)

 

Secondo me i passi preventivi dovrebbero essere questi (in quest'ordine):

 

1) il riconoscimento di Israele con Gerusalmme ovest come capitale, da parte dell'autorità palestinese 

2) il riconoscimento israeliano di uno stato autonomo palestinese con Gerusalemme est come capitale

3) la garanzia di sicurezza di Israele da parte dello stato palestinese 

4) lo smantellamento di una parte delle colonie israeliane nel West Bank

5) una garanzia internazionale per la sicurezza dei confini di ambedue gli stati

6) un progetto di sviluppo economico per il West Bank (chiamiamolo pure Piano Marshall)

 

Affinché tutto questo funzioni devono essere messi da parte, secondo me, due nodi di contrastoo ora come ora irrisolvibili: il primo è la questione Golan, che per Israele è strategica e che con i palestinesi non c'entra nulla. Il secondo punto è la questione Gaza, che deve essere lasciata da parte e che deve essere oggetto di un eventuale piano separato legato al manifestarsi di determinate condizioni (leggi Hamas).

Il punto fondamentale è "semplificare e risolvere" step by step e proprio per questo bisogna evitare di mettere troppa carne al fuoco, con l'illusione di voler risolvere tutto e con il risultato di non ottenere nulla.

 

A questo punto qualcuno obietterà: "glielo dici tu ai coloni di smantellare dal West Bank?"

No. Glielo dovrebbe dire un governo israeliano solido, autorevole, che non si regga sul ricatto dei partitini della destra religiosa e che sia quindi in grado di prendere decisioni difficili e di sopravvivere politicamente ad esse. Impossibile? No, Sharon già lo fece nel 2005 con gli insediamenti di Gaza e nonostante le proteste dei coloni. Il punto quindi è solo volerlo o non volerlo fare. Israele rimane uno stato laico nonostante il peso degli ultraortodossi e questo concetto è stato recentemente ribadito dalla corte suprema israeliana che ha imposto anche agli haredim l'obbligo di assolvere il servizio militare. Quindi si tratta di trasferire questo concetto civile nell'ambito politico e per farlo ci vuole un governo forte di unità nazionale che escluda i partiti religiosi e che sia in grado di imporre i propri principi in nome del supremo interesse del paese.

 

In ogni caso, non tutte le colonie dovrebbero essere smantellate perché una parte di esse (quelle territorialmente prossime al confine israeliano) è inevitabile che vengano  annesse ad Israele: d'altra parte che l'annessione di una parte delle colonie sia un'opzione lo ha ammesso recentemente anche MBS davanti ad Abu Mazen. Si tratta quindi di cercare un compromesso, offrendo ai palestinesi compensazioni economiche nonché la contiguità territoriale nel West Bank (senza la quale uno stato non può sopravvivere - e si ritorna al discorso del bantustan), cercando di semplificare il più possibile l'andamento dei confini, in modo da evitare frammentazioni assurde. 

Per tutte quelle non annesse ad Israele (compresa l'assurda situazione di Hebron, oltretutto estremamente costosa per le casse israeliane) prevederei due opzioni:

 

1) lo smantellamento (piaccia o non piaccia...) ed il reinsediamento dei coloni in territorio israeliano con relative compensazioni economiche ai coloni, oppure

2) la permanenza volontaria delle colonie nello stato palestinese come entità amministrative a statuto speciale,  sotto l'autorità  generale dello stato palestinese ma con adeguate garanzie di sicurezza e civili.

 

Il tutto, alla luce del pragmatismo, del buon senso e del compromesso. Di certo, non si può pensare di trovare la quadratura del cerchio rimanendo ostaggi dei fanatici religiosi di una parte e dell'altra (ultraortodossi e Hamas), altrimenti non se ne esce.

Difficile? Si. Impossibile? No, perché la politica è l'arte dell'impossibile.

 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Mettendo Bolton + stallo israelo-palestinese + situazione Iraq/Siria può venire fuori di tutto, anche un vero e proprio nuovo Medio Oriente, nel senso di ridisegnare completamente i confini della regione. E' molto complicato, ma se si va avanti così potrebbe diventare l'UNICO modo per sistemare la regione. Cancellare Sykes-Picot, considerare i confini che ha partorito come qualcosa di insostenibile alla luce delle spaccature etniche e religiose, quindi andare in altre direzioni. Che in sostanza vuol dire stato curdo al Nord di Iraq/Siria (e qui ti scontri con la Turchia), stato arabo sciita nel Sud dell'Iraq, stato alawita sulla costa siriana e infine stato sunnita su mezzo Iraq, mezza Siria, l'attuale Giordania + territori palestinesi, magari il tutto a guida hascemita, forse gli unici con il carisma necessario per trasformare tutto ciò in una nazione. Siamo ai limiti della fantapolitica ma considerando la situazione nella regione ormai non si può escludere nulla. 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

×

Informazione Importante

Utilizziamo i cookie per migliorare questo sito web. Puoi regolare le tue impostazioni cookie o proseguire per confermare il tuo consenso.