La scorsa estate, abbastanza inaspettatamente, Cristiano Ronaldo è stato raggiunto da stelle del calcio europeo e mondiale del calibro di Karim Benzema, Momo Salah, Sadio Manè e Neymar, ma anche giocatori di alto livello come l’ex laziale Sergei Milinkovic Savic. Un’operazione da 2,5 miliardi di euro in pochi mesi, dei quali 800 milioni riversati nelle casse di club prevalentemente del Vecchio Continente e 1,7 miliardi nei conti correnti dei calciatori. “L’Arabia Saudita si sta comprando il calcio”, “L’Arabia Saudita ha avviato un progetto gigantesco per poter dominare il calcio”, erano solo alcuni esempi di articoli che durante l’estate descrivevano in modo anche preoccupato il fiume di denaro che ha drenato talenti e sicuramente impoverito il roster dei giocatori da poter ammirare nel tradizionale mercato di fruitori del pallone.

A distanza di qualche mese, tuttavia, il progetto saudita sta incontrando alcune criticità ad affermarsi. Se non dal punto di vista economico e del soft power saudita la questione è indubbiamente più complessa e stratificata, da quello della capacità di penetrazione tra i fans del calcio europeo, dell’interesse suscitato e della discussione pubblica sul pallone, i risultati sembrano al momento modesti.

Per la prima volta in decenni di tradizione calcistica saudita - una nazione che sul palcoscenico asiatico sa dire la sua sia a livello nazionale sia a livello di club, e che ha chiamato Roberto Mancini per consolidarla e irrobustirla ulteriormente - i diritti tv del campionato arabo sono stati venduti all’estero. Un segnale di cambiamento più che un’affare dal punto di vista economico, perché l’incasso globale raggiunge appena i 100 milioni di euro, una goccia nel mare di soldi spesi dalle squadre saudite. Il punto è che l’investimento che hanno fatto i broadcast occidentali non sembra star ripagando. La7, che ha acquistato le partite della Saudi League per due anni, all’irrisoria cifra di 500mila euro complessivi, ha deciso che è più remunerativo mantenere in prima serata la consueta programmazione, in genere talk di argomento politico. Le partite vanno così in diretta su La7d, e solo in seconda serata sulla rete ammiraglia. Un segmento in teoria “più facile” per intercettare ascolti, ma finora il pubblico si è sostanzialmente disinteressato ai match. Un numero che va tra i 50mila e i 150mila spettatori hanno seguito le prime quattro giornate, l’asticella degli ascolti inchiodata all'unovirgola. E nel resto d’Europa, in particolare in Germania, Francia e Gran Bretagna, il pubblico è altrettanto risicato.

In una recente intervista a Fox News, il principe saudita Mohammed bin Salman, erede al trono e vero architetto della rivoluzione calcistica saudita, ha fatto spallucce sulle accuse di voler semplicemente cambiare la narrazione sull'Arabia Saudita e sulla dittatura di cui è ai massimi vertici attraverso il calcio. "Se lo sportswashing aumenta il nostro prodotto interno lordo di un 1 per cento, allora continueremo con lo sportswashing - ha dichiarato Bin Salman -. Non mi interessa, abbiamo ottenuto l'1% di crescita del Pil grazie agli investimenti nello sport, e ora puntiamo ad un altro 1,5%. Chiamatela come volete, ma noi continueremo per questa strada”.

Secondo Marco Bellinazzo, giornalista del Sole24ore e tra i principali esperti di questione politico-economiche del mondo del calcio, il nocciolo della questione gira proprio attorno al principe. Spiega Bellinazzo che “il vero obiettivo è costruire una nazione araba che guardi e coinvolga le giovani generazioni, in patria e nella galassia arabo-musulmana, e che parli al mondo occidentale, consolidando il potere di bin Salman ormai prossimo a un passaggio generazionale con il padre”.

Da questo punto di vista, lo scarso appeal che il campionato saudita ha in Occidente, sia come ascolti sia come discussione generata sui social da appassionati e esperti, la cui eco è praticamente nulla, per la monarchia di Riad non è un problema. “Non credo che i sauditi si aspettassero un ritorno immediato, l’ottica non è quella di incassare economicamente, non ne hanno bisogno, ma di dare un nuovo ruolo geopolitico più aperto, influente e autorevole a un paese economicamente fortissimo ma che ha una pessima reputazione nel mondo”.

Nel breve periodo, anche in patria le cose non sembrano star andando molto meglio. Numeri alla mano, si notano ovvi casi di boom di pubblico negli stadi. È il caso dell’Al-Hilal, club che si è accaparrato Neymar, Milinkovic Savic, Mitrovic, Malcom, Ruben Neves e Koulibaly, che a fronte di una media di 9.900 spettatori paganti fatta registrare l’anno scorso nei primi incontri di quest’anno è schizzata a 29.500. Ma complessivamente la media spettatori delle prime 63 partite di quest’anno è assai modesta, appena 8.300 spettatori, addirittura in calo rispetto agli 8.700 fatti registrare la scorsa stagione. In parte potrebbe contribuire a spiegare il poco appeal delle partite, in tempi in cui la fruizione del calcio veicola la sua godibilità anche per la cornice di strutture e pubblico che riesce a costruire intorno al campo. Vedere un match con il Santiago Bernabeu di Madrid o il Giuseppe Meazza di Milano pieni e cantanti è sicuramente più affascinante di una struttura da venti o quarantamila posti semi-deserta.

Secondo Bellinazzo questo può essere un problema: “Le strutture devono sicuramente essere adeguate, ma la monarchia saudita sta lavorando anche su questo”. Il vero obiettivo sarebbe quello di imitare i cugini del Qatar, e aggiudicarsi un’edizione della Coppa del Mondo, più probabile quella del 2034 che non già nel 2030. Bin Salman sta giocando le sue carte su un piano di lungo periodo, cosa che si era intuita già dopo lo sbarco del fondo di stato saudita in Premier League attraverso l’acquisto della storica società del Newcastle riportata dopo anni in Champions League. I soldi per alimentare il proprio campionato interno non mancano, e l’assenza di ricavi che possano sostenere tale sforzo non sembra essere un ostacolo.

La domanda che forse bisognerebbe porsi è se l’eco deludente di questi primi mesi si prolungherà, relegando la Saudi League a un sostanziale disinteresse la gran parte dell’anno, ravvivato al massimo da qualche fiammata nelle finestre di calciomercato, e sostanzialmente facendo crollare l’appeal dei faraonici contratti per calciatori di primo piano. In modi e tempi diversi è successo con il Giappone all’inizio degli anni ’90, e con la Cina e gli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000. Se i mercati dell’estremo oriente hanno di fatto chiuso i rubinetti, oltreoceano continuano ad affluire calciatori sostanzialmente a fine carriera - il caso di Messi quest’anno, o di Chiellini due anni fa - ma nulla in confronto alla “generazione Beckham” che una ventina d’anni fa sembrava poter trasformare la lega americana di soccer in uno dei migliori campionati al mondo.

Oggi si tende poco a ricordare che il mercato nordamericano negli anni ’70 mise in piedi un’operazione che ricorda quella saudita non fosse altro per i nomi di richiamo ingaggiati dalla Lega principale che allora si chiamava Nasl. A un certo punto negli Usa si ritovano a giocare contemporaneamente Pelè, Best, Beckenbauer, Carlos Alberto, Chinaglia e Cruyff. Il campione olandese scrisse nella sua autobiografia: “Le trattative si svolsero a velocità supersonica. In un solo giorno raggiungemmo l’accordo, e mi dissero che cinque ore dopo avrei dovuto prendere un aereo. Dopo un volo di dodici ore, a quattro ore dall’atterraggio, scesi in campo”. Una descrizione abbastanza vivida delle trattative-lampo raccontate dai media di settore la scorsa estate. Cruyff non lo dice mai esplicitamente, ma lascia capire che la sua fu una decisione legata principalmente a questioni di portafoglio in un momento in cui rischiava la bancarotta. E nelle pagine in cui racconta la propria esperienza americana, si concentra sugli orrendi campi in erba sintetica e sulle skill manageriali che acquisì in quegli anni, il campo viene citato pochissimo. La bolla dei campioni del soccer si sgonfiò rapidamente, e ci vollero anni affinché il calcio si affermasse come sport mediamente praticato e seguito negli Stati Uniti. Un contributo lo diede il Mondiale del ’94, ma soprattutto qualche anno dopo la straordinaria affermazione del calcio femminile, che ha reso la nazionale a stelle e strisce una di quelle più forti e più seguite del mondo.

“Il rischio di ridimensionamento certamente c’è”, osserva Bellinazzo, almeno per quanto riguarda l’appeal per sponsor e campioni. “Ma il lavoro saudita punta anzitutto a un radicamento nel mondo arabo e musulmano”, prosegue. È a quell’area geopolitica che guarda soprattutto bin Salman, che sa di non poter competere con la potenza di fuoco che per storia e tradizione hanno competizioni come la Champions e la Premier League, che raccolgono circa l’80% degli investimenti, con la restante fetta della torta raggranellata da campionati di blasone quali la Liga spagnola, la Bundesliga, la Ligue 1 e ovviamente la Serie A. “L’interesse è molto relativo”, conferma il giornalista del Sole24ore, “il pubblico europeo è legato alla squadra per cui tifa, e a competizioni di cui riconosce i club protagonisti, la storia, il contesto”.

Non un’osservazione banale detta oggi, se si pensa che fino a due mesi fa davvero in pochi azzardavano previsioni su quanto il campionato del deserto avrebbe suscitato interesse alle nostre latitudini. Di certo c’è che l’investimento di Bin Salman sul calcio saudita e, indirettamente, sulla sua persona, appaiono oggi strutturali e con un respiro di medio periodo. L’emorragia di calciatori verso Riad probabilmente continuerà anche per le prossime sessioni di mercato, ma dopo le faville degli scorsi mesi difficilmente si potrà creare ancor più curiosità e interesse di quanto fatto nell’ultima sessione di mercato. Forse per il vero salto di qualità nel calcio saudita si dovrà aspettare davvero un eventuale Mondiale. Sempre che ci si arrivi.