Vai al contenuto

Benvenuti su VecchiaSignora.com

Benvenuti su VecchiaSignora.com, il forum sulla Juventus più grande della rete. Per poter partecipare attivamente alla vita del forum è necessario registrarsi

Archiviato

Questa discussione è archiviata e chiusa a future risposte.

29 MAGGIO 1985

Meteore juventine e non. Presunte "stelle" che non hanno mai brillato come si auspicava, o che si illuminavano a corrente assai alternata

Post in rilievo

9 ore fa, 29 MAGGIO 1985 ha scritto:

 mi fa piacere che tu abbia gradito, e soprattutto, che tu abbia aggiunto un ulteriore " tassello " al tuo, peraltro già ben fornito, bagaglio di  nozioni a tinte bianconere . 

 

Buon proseguimento, .salveStefano !

grazie a te per la condivisione :).give_rose

 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
Il 23/4/2020 Alle 08:37, Al Galoppo ha scritto:

Il mio più grande rammarico rimane Henry, di fatto una meteora da noi, con forte miopia da parte della dirigenza dell'epoca.

Uno dei migliori attaccanti europei del primo decennio di questo secolo.

Più che di Moggi, la colpa fu dell'allenatore. Chi più di lui poteva valutare le potenzialità del materiale umano che aveva a disposizione?

Errore gravissimo.

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
2 ore fa, 29 MAGGIO 1985 ha scritto:

..... Amico mio , concedimi una premessa

 

- il gol di Verza da te postato, e di cui ti ringrazio, è stato da me celebrato come un " Grandissimo gol "  tanto da metterlo al medesimo livello di quello messo a segno con la Maglia della Juve contro la Fiorentina : su questo non ci piove ... e non vorrei essere stato frainteso ! 

 

.... E poi, detto, tra noi, il gol contro il Como, come coefficiente di difficoltà , è perlomeno pari , se non superiore rispetto a quello messo a segno da Maradona, anche perchè, i difensori inglesi, al di là delle doti tecniche dell'argentino, non è che abbiano poi opposto la dovuta e necessaria " contrapposizione " alla discesa nel N°10 avversario ( assai più determinati mi sono parsi,, invece, i giocatori del Como ) .... oltretutto, non so il perchè, seppur siano passati tanti anni, continuo ad aver la sensazione che il tiro finale verso la porta sia stato " sporcato/toccato " da un giocatore inglese ! 

 

Ciò detto, non ho mai creduto e mai crederò a classifiche  del tipo  :

 

 IL GIOCATORE PIU' FORTE DELLA STORIA DEL CALCIO  -  IL GOL PIù BELLO DELLA STORIA DEL CALCIO   -  LA PARATA PIU' BELLA DELLA STORIA DEL CALCIO .. E VIA DICENDO ! Troppi sono i parametri da prendere in considerazione ... e qui apriremmo un " CAPITOLO INFINITO " ! 

 

.salve Stefano !

 

 

oltretutto, non so il perchè, seppur siano passati tanti anni, continuo ad aver la sensazione che il tiro finale verso la porta sia stato " sporcato/toccato " da un giocatore inglese ! 

 

è la mia stessa sensazione guardando e riguardando il replay ...ma credo che nessuno dei giocatori inglesi abbia mai dato, anche a distanza di anni, una versione diversa da quella universalmente riconosciuta 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
39 minuti fa, Dallas Cawboys ha scritto:

oltretutto, non so il perchè, seppur siano passati tanti anni, continuo ad aver la sensazione che il tiro finale verso la porta sia stato " sporcato/toccato " da un giocatore inglese ! 

 

è la mia stessa sensazione guardando e riguardando il replay ...ma credo che nessuno dei giocatori inglesi abbia mai dato, anche a distanza di anni, una versione diversa da quella universalmente riconosciuta 

..... Grazie, Amico mio, non lo nego, un po' mi rincuori : ogni volta che rivedo quel gol .. uum .. mi chiedo ? 

 

" OH .. SIGNUR .. NON SO SE  STO PRENDENDO LUCCIOLE PER LANTERNE .. O SE DEVO FAR AUMENTARE LE DIOTTRIE DEI MIEI OCCHIALI ..  :8  "

 

 Carissimo, oltre alla indefessa passione per la nostra Juve, ora scopro, e mi fa piacere assai, che con te condivido anche un .........  .ehm

 

 

 image.jpeg.3d2adf9f079ae9108734a1b5b5b1ce4e.jpeg    .... D U B B I O !

 

   

 Anche perchè, è notorio, solo gli stolti vivono e si nutrono solo ed esclusivamente di " CERTEZZE " e non hanno mai un " DUBBIO " ... :tsa:

 

 

Buon proseguimento, .salve  Stefano !

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
Il 23/4/2020 Alle 08:41, curvafiladelfia ha scritto:

Ho sempre sentito parlare di Domenico Marocchino come un potenziale fenomeno. Sembra che con i suoi atteggiamenti fuori dal campo facesse impazzire Boniperti...

 

Il 23/4/2020 Alle 15:11, carlein ha scritto:

Bella l'idea di questo tipo che permette di ripercorrere a ritroso la storia del calcio attraverso le gesta di mancati campioni che per un motivo o per l'altro non hanno raggiunto il pieno successo.

Secondo me ci poteva stare anche Domenico Marocchino che in quanto a "testa matta" aveva pochi rivali...Nei suoi anni alla Juve era chiuso da Causio ma qualche soddisfazione se la prese...ricordo in particolare una grande partita nella finale di ritorno di Coppa Italia 82/83 al vecchio Comunale e che,se non ricordo male,fu anche il suo ultimo ballo con la Vecchia Signora

Cari Amici , sperando di farvi gradita, vi informo che ho aperto un'altro topic dedicato ... ANCHE ...  a DOMENICO MAROCCHINO  !

 

Se vi può interessare lo trovate qui .....  .ehm 

 

  L'ineguagliato estro e la classe immensa di Omar Sivori, ed il surreale, direi quasi kafkiano, modo d'intendere il Giuoco del Calcio dello juventino Domenico Marocchino 

 

Buona Domenica a voi e famiglie ! 

 

.salve Stefano !  

 

 

p.s. - .imbarazzato ... ops ... mi sovviene proprio adesso che l'amico " Curva Filadelelfia " ... forse ... è già passato da " quelle parti " :

 

così fosse, chiedo venia .... età e memoria non sempre vanno di pari passo .... :(

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
1 ora fa, 29 MAGGIO 1985 ha scritto:

p.s..imbarazzato ... ops ... mi sovviene proprio adesso che l'amico " Curva Filadelelfia " ... forse ... è già passato da " quelle parti " :

Io avevo solo fatto un fugace (come le giocate di Marocco..) commento. Lascio volentieri l'onere e l'onore del topic a te! 😁

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

A me viene in mente Roberto mancini. Fenomeno coi club (sempre in piazze "minori" però, anche se in quel periodo Samp e Lazio erano forti), sempre deludente in azzurro. 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Magrin. Quello che, all'epoca, in molti dissero fosse l'erede di Platini alla Juve. Tant'è che qualcuno, troppo frettolosamente, ebbe il coraggio di soprannominare Magrin "Magrinì".

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
Il 23/4/2020 Alle 08:29, scream for me ha scritto:

pancev.jpg

 

A parte gli sfottò....anche il Cobra all'epoca era una macchina da gol e uno degli attaccanti più prolifici ma poi in Italia si perse completamente....

Darko Pancev! 

Ricordo un aneddoto, raccontato da Federico Buffa, nel quale, durante un ritiro, un tifoso nerazzurro insultó Pancev per il suo "rendimento" e lui gli rispose "Tu fischiare me, io guidare Ferrari. Tu ancora fischiare me, io guidare seconda Ferrari" 

I D O L O 😂

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Visto che si è nominato Chiumiento, perché non ricordare anche Ciccio Grabbi

 

Entrambi talenti tecnici immensi, entrambi carriera penosa rispetto al potenziale, entrambi accusano Moggi del loro fallimento. 

Nella realtà entrambi hanno sopravvalutato il proprio talento pensando che bastasse per diventare campioni e trascurando completamente l'aspetto atletico e psicologico. 

 

Ma tanto sparare su Moggi è sempre di moda. 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

- premetto che non parlo di giovani presunti fenomeni -

 

l'unico da cui mi aspettavo tanto era Diego

l'ho visto giocare tante volte nel Werder , ed in quel contesto era fortissimo

ma proprio forte forte -per cui non è stato un errore comprarlo,anzi

 

e poi da noi , è capitato in un pessimo momento globale, difficoltà di adattamento scarsa personalità, pressioni, ecc. ecc.

 

- io comunque un anno lo avrei ancora tenuto x  valutarlo meglio ...è stato troppo brutto per essere vero -

 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
Il 27/4/2020 Alle 06:49, fighter84 ha scritto:

Fabian O’neill e’ gia’ stato detto?

Hai sentito quello che ha detto Montero di O'Neill 2 giorni fa ?   

Ovvero che è il più forte giocatore che abbia mai visto , alla pari di Zidane ( e lo aveva detto pure Zizou)

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
Il 24/4/2020 Alle 20:31, Bercegol ha scritto:

Leggo sempre con estremo piacere i tuoi interessanti post. E, più che portare una testimonianza, la cerco da te.

Il mio nick name arriva, con ben saprai, direttamente da un giocatore degli anni '60 che fece una breve ma intensa apparizione nella Juve per poi svanire nel nulla, o quasi.

Io ero un bambinetto, ma il soprannome di Bercegol datogli da qualche giornalista mi faceva luccicare gli occhi.

Hai una qualche tua testimonianza "vissuta" su di lui? Ricordi qualche aneddoto? Io so di lui giusto quello che si trova in rete, ed è pochino.

 

 

 

Ho visto ora che ne hai già parlato. Vado a leggere!

Amico, passando di qui, ho rivisto con piacere il tuo post di cui sopra, e mi son detto : " uum Quale ulteriore aneddoto potrei narrare all'amico Bercegol ? "

 

Bercellino, sotto questo punto di vista, offre pochissimi " spunti " di narrazione

 

CALCIATORE ASSAI SERIO  ... PERSONA SERISSIMA ... LIGIO ALLE REGOLE ...EDUCAZIONE E RISPETTO ( SIA IN CAMPO ... DURO MA LEALE ... CHE AL DI FUORI DI ESSO ) ERANO E SONO " CARDINI IMPRESCINDIBILI SUI QUALI HA BASATO AL SUA VITA ! 

 

A pag. 3 di questo mio topic  che, al momento, trovasi a pag.1 del forum ....  .ehm

 

 

L'ineguagliato estro e la classe immensa di Omar Sivori, ed il surreale, direi quasi kafkiano, modo d'intendere il Giuoco del Calcio dello juventino Domenico Marocchino  

 

troverai un altro mio accenno ad un fondamentale episodio .... di un ... " RIGORE " CHE NESSUNO VOLEVA CALCIARE ... E CHE LUI, INVECE ........

 

 

Inoltre ti passo anche quanto segue ( piacevolissima lettura tratta da " IL PALLONE RACCONTA " che, forse, avrai già letto ....  .ehm

 

 

Giancarlo BERCELLINO

 
 
bercellino%2Bg%2B%25284%2529.jpg

Aveva 15 anni – scrive Emilio Fede su “Hurrà Juventus” dell’aprile 1965 – gli dissero che sarebbe divenuto un forte attaccante se avesse continuato ad allenarsi con serietà, senza grilli per la testa. Così fu. Esordì nel ruolo di centravanti contro la squadra ragazzi della Juventus. L’anno dono la società bianconera lo acquistò per un milione e mezzo. Giancarlo Bercellino, ragazzo senza grilli, aveva realizzato il grande sogno.
«Mi ricorderò sempre quel giorno. Battersi contro la Juventus, anche se si trattava dei giovani, era una vera emozione. La notte prima non aveva chiuso occhio, mi rigiravo nel letto in preda agli incubi. E in quel dormiveglia correvo come un forsennato su e giù per il campo, dribblavo mediani e terzini segnando stupendi goal. Invece non ho segnato, ma ce l’ho messa tutta per fare bella figura», racconta Bercellino.
Quella domenica di otto anni fa è viva nella sua memoria come fosse ieri. Una bella giornata di sole con tanta gente che affollava lo stadio del Borgosesia. L’allenatore della squadra locale era il papà di Bercellino, Teresio, un uomo che al di sopra degli affetti credeva, a ragione, nelle capacità del figlio.
Alla fine dell’incontro un dirigente avvicinò Giancarlo e gli disse «Sei forte, chissà che non ti debba trasferire a Torino molto presto». E per Giancarlo fu la seconda notte bianca. Invece passarono alcuni mesi e quando il ragazzo del Borgosesia aveva ormai dimenticato quel grande sogno, arrivò la notizia: «Giancarlo va alla Juventus». Gliela comunicò papà Teresio che aveva trattato il passaggio.
Lasciò i compagni a malincuore, perché in quella squadra aveva provato le prime emozioni, il batticuore della vigilia. Gattinara, la cittadina del vercellese dove Giancarlo Bercellino è nato il 10 ottobre del 1941, gli tributò una bella festa con brindisi e applausi.
Poi il ragazzo con la sua grande valigia salì sulla corriera per Torino, verso un avvenire che già allora si profilava splendido. «Avevo le lacrime agli occhi, mi sentivo troppo ragazzo per osare tanto. Cosa poteva succedere? Sarei stato in grado di rispondere alle esigenze di una squadra come la Juventus? Mille domande mi sono fatto durante quel viaggio fino a Torino. E molte di quelle domande restavano senza risposta», racconta Bercellino.
Cominciò nella capitale piemontese la sua nuova vita. Gli allenamenti, i nuovi amici, i compagni di squadra, le speranze. I tecnici lo seguivano con interesse, si informavano spesso di lui, sapevano che prima o poi sarebbe passato alla squadra A. Non era più il forte attaccante, scoprivano in lui le doti del difensore, sicuro, tenace nei duelli, potente nel tiro. «Faticavo all’inizio, ero quasi deluso di dover rinunciare ai compiti di centravanti, ma fu solo una questione di tempo. Ben presto mi resi conto che dietro, giocare in difesa, l’emozione è più forte, la responsabilità maggiore».
Quattro anni fa l’esordio in Serie A. Era la gara col Mantova. Come in quella vigilia di Borgosesia-Juventus, Giancarlo si trovò in preda agli incubi, come se quelle ore che precedevano l’incontro fossero le più lunghe della sua vita. Il ritiro con i compagni celebri, i discorsi sulla tattica, erano come un’eco ossessiva che gli martellava la testa mentre l’alba della domenica tardava ad arrivare.
«In campo di colpo è passato tutto. Alla paura è subentrata la volontà, il coraggio di lottare. Non sentivo neppure più il pubblico. Capivo, però che avevo superato il momento più terribile».
Negli spogliatoi i giornalisti si occuparono subito di lui, gli fecero tante domande e volevano sapere ogni cosa. Bercellino, l’esordiente, occupò buona parte della cronaca sportiva dei giornali del lunedì.
«Sicuro nel dribbling... formidabile nell’anticipo... saettante nei colpi di testa», scrissero.
Fino a oggi Giancarlo Bercellino ha disputato oltre 70 partite nella Juventus, senza contare gli incontri amichevoli e di coppa. La sua tecnica cresce di partita in partita. Assieme a Castano costituiscono un duo insuperabile. «Con Castano e Leoncini andiamo molto d’accordo. Anche con gli altri, ma loro sono gli amici con i quali divido spesso le ore libere, per andare al cinema o per fare una gita o una battuta di caccia», dice.
La caccia è il suo hobby. Un fucile a ripetizione, una doppietta, carnieri e cartucce sono fra gli oggetti preziosi nella camera che lo ospita in una pensione vicina allo stadio. È rimasto ragazzo, semplice, senza presunzioni. Legge “Topolino”, i romanzi della serie “Segretissimo”, perché lo distraggono, lo aiutano a non pensare specie durante la vigilia degli incontri più accesi. «Preferisco stare in pensione e non prendermi un alloggio, perché così mi sento legato al mio paese. Difatti quando ho una giornata libera vado a Gattinara a trovare i miei genitori e Marisa», dice.
Marisa, una graziosa ragazza di vent’anni, che Bercellino sposerà il prossimo anno. Si conoscono da ragazzi. Lei è di Gattinara, gli è stata vicina sempre, aiutandolo moralmente nei momenti più difficili. Qualche volta, la domenica, viene a Torino per vederlo giocare, poi si incontrano per passeggiare e parlano del loro domani. «Mi comprerò un negozio per avere di che vivere quando non potrò più giocare. Penso che sarà un negozio di articoli di caccia e pesca. Non ho grandi ambizioni, risparmio più che posso; so benissimo che questa professione non dura tutta la vita. A trent’anni siamo finiti, la gente ci dimentica», confessa con tono triste.
Mentre ci parla gli consegnano una lettera che viene da Potenza. La guarda felice «È di Silvino», dice aprendola in fretta. Da Potenza il fratello di Giancarlo gli scrive tutte le settimane. «Va davvero forte, diventerà quello che avrei dovuto diventare io, un centravanti», dice.
Silvino ha segnato 14 reti diventando l’idolo della città. Anche lui è del vivaio bianconero, un altro dei tanti giovani che nelle file della Juventus hanno imparato molte cose, importanti. «Spero che torni presto per giocare assieme. La Serie B gli servirà per farsi le ossa, ma il suo sogno è di stare a Torino e di giocare con la maglia bianconera», dice.
Lui, Giancarlo Cesare Bercellino, il sogno lo ha realizzato. E i suoi momenti più belli sono quelli della domenica calcistica, quando sente il fischio d’inizio e comincia la grande battaglia dei muscoli e della volontà. I suoi segreti tecnici? Dice di non averne. Ha segnato contro la Roma su azione, contro il Bologna e la Sampdoria su punizione, ma non si è esaltato. È tornato di corsa alla sua posizione di difensore, ligio agli ordini di mister HH2. «Lui sa come deve funzionare la squadra. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio».
Una confessione di modestia che ci conferma ancora una volta la semplicità di questo forte giocatore del vivaio juventino.

Nella Juventus gioca dal 1961 al 1969 e mette insieme, tra campionato e Coppe, 203 partite e realizza 14 goal.
Tra i ricordi di questo ragazzone dal sorriso folgorante e genuino, c’è quello che coinvolge John Charles. Atene, autunno del 1961: la Juventus gioca in Coppa Campioni con il Panathinaikos. Castano è indisponibile, la difesa ha bisogno di una cerniera supplementare. Davanti ad Anzolin, di fianco a Bozzao, Bercellino e Caroli, e dietro a Mazzia, Rosa e Leoncini si piazza il gallese che nel Leeds ha già avuto esperienze difensive.
Quel giorno i greci ronzano nell’area bianconera come zanzare moleste. Se non che il muro Charles-Bercellino si alza e non c’è gloria per gli insetti in maglia verde. La folla straripa e applaude, uno spettacolo di colore e folklore. Ed è uno spettacolo vedere quelle due torri frantumare le palle alte con zuccate impietose. I terzini sono al sicuro e possono occuparsi con serenità delle ali e Anzolin può sorridere disteso. Prende un solo goal ed è 1-1. Mora ha firmato il goal del vantaggio bianconero, sufficiente ad accedere al turno in Coppa Campioni.
Dopo la maglia bianconera, indossa quelle del Brescia e della Lazio. Poi, affronta il mestiere non facile dell’allenatore occupandosi in prevalenza di categorie interregionali, senza successo.
 


GIANNI GIACONE, “HURRÀ JUVENTUS” MAGGIO 1974
Un tempo, neanche poi troppo lontano in verità, il centromediano era pure chiamato centrosostegno, e il termine subito rievoca eroismo e abnegazione applicata al duro mestiere del difensore. Nel senso che veramente il centromediano era qualcosa di epico, il centro dell’universo pallonieristico, la calamita di tutte le azioni di attacco, di tutti gli arieti da goal in circolazione.
Centromediano contro centrattacco, l’uno contro l’altro e via, duelli fatti di estro e di grinta, spesso di classe; chi ha mai detto che il vigore atletico è disdicevole al “professional” dai piedi vellutati e dalla limpida impostazione del gioco? Certo, in chi difende e funge da ultimo baluardo davanti al portiere è assai più difficile intravedere il lampeggiare di classe paradisiaca, la calma olimpica dei forti. Il guizzo che ammutolisce ed esalta le folle è prerogativa dell’attaccante, ma sono sottigliezze, cose da superficie.
C’era Luisito Monti, centromediano e più che mai centrosostegno, che sciabolava con memorabili entrate spazzando via l’area che era di Combi, rarissime le indulgenze per la platea, e però classe enorme applicata a un coraggio da gladiatore: i suoi duelli con Peppino Meazza o Sindelar Cartavelina sono epopea.
E c’è stato Giancarlo Bercellino, paragone assurdo ma non impertinente, tanto diverse essendo le epoche a raffronto ma tanto vicini nello spirito i due tipi.
Bercellino esemplifica una delle ultime versioni del centromediano-sostegno, certamente la più vicina al ricordo e al cuore del supporter bianconero. Gli anni Sessanta di Bercellino sono altra cosa dagli anni Trenta di Monti, ma l’evoluzione del gioco, che travolge concezioni, schemi e perfino mentalità, lascia intatto nella sostanza il significato del ruolo, anche se gli toglie in parte drammaticità e poesia: lo stopper, adesso, può anche sbagliare, essendo che alle sue spalle è stato inventato il libero. Ma attenzione: c’è il cambiamento radicale di mentalità, si diceva, e il dramma del duello risolutivo cede il posto alla psicosi del goal preso. Sicché lo stopper, chiamato a contrare l’attaccante, resta più che mai protagonista.
L’avventura bianconera di Giancarlo Bercellino inizia un caldo pomeriggio di fine agosto del 1961. Ci sarebbero i presupposti per un debutto felice: a vent’anni, già un posto da titolare in Serie A, e per di più con la maglia scudettata e a fianco dei campioni della leggenda moderna, Sivori e Charles vale a dire.
Ma non sarà così: il debutto casalingo della Juve contro la matricola Mantova anticipa i malumori e le insoddisfazioni dell’annata bianconera, finisce 1-1 la partita da vincere nettamente, Longhi e Giagnoni annichiliscono Omar il Cabezon, neppure Charles sembra più lui, e Bercellino trova durissimo limitare i danni contro un giovincello al pari di lui, tale Sormani ancora fresco di Brasile.
E allora un esordio prematuro per un ragazzo ventenne, un anno sprecato? No, assolutamente. Berce è iellato, si fa male in più di un’occasione, ma alla fine raccoglie comunque ventuno presenze in Campionato e gettoni preziosi in Coppa dei Campioni. È una stagione di alti e bassi, per lui: momenti di vera gloria sono certamente quelli della partita di ritorno con il Real Madrid, allo stadio Bernabéu della capitale spagnola, dove lotta e vince da gladiatore sugli spagnoli furenti per aver subito da Sivori il goal dell’inattesa sconfitta.
E, viceversa, sconfortanti sono i novanta minuti di San Siro, 12 novembre 1961, Milan-Juve 5-1, con Bercellino che è opposto ad Altafini il quale fa in pratica quello che vuole, e alla fine saranno quattro reti di José nella porta di Anzolin.
No, questo Bercellino non è ancora il Berceroccia della Juve nuovamente ai vertici del calcio nazionale: il 1962-63 sarà anno di transizione, in prestito per farsi le ossa, ed anche il 1963-64 del suo ritorno alla base rappresenterà per lui un campionato di passaggio, con sole nove presenze. Il grande balzo Berce lo spicca l’anno dopo: annata chiave per lui e per molti altri, il 1964-65.
È arrivato Heriberto Herrera, i tempi invitano a un cauto ottimismo, nel senso che la Juve si sta ritrovando pian piano dopo annate balorde, ma non è ancora pronta a diventare protagonista, netto essendo ancora il divario di forze e di esperienza che separa la squadra bianconera dall’Inter.
Bercellino convince subito tutti, tecnici e tifosi, sin dai primi galoppi in famiglia: è maturato tecnicamente, e questo è importante, visto che la stazza fisica ragguardevole già garantisce più che a sufficienza. Insomma, è oramai difensore completo, stopper fatto apposta per chiudere a cerniera una difesa imperniata inoltre sul classico Castano libero e sul dinamismo di Gori, Salvadore e Leoncini.
Il campionalo conferma appieno le prime risultanze: la difesa bianconera è tra le più solide, forse la più solida in assoluto, e Bercellino assomma trenta presenze. E due goal, particolare tra i più significativi, perché foriero di sviluppi futuri interessanti. Berce, oramai detto roccia per le sue doti di inesorabile francobollatore, si ritrova, infatti, nei piedi una carica di primissimo ordine, che di tanto in tanto fa esplodere nei calci piazzati.
Punizioni, per il momento, come quella che piega il Bologna Campione d’Italia il 18 ottobre 1964, o quella che apre le marcature contro la Sampdoria, un mese dopo e sempre al Comunale torinese. Ma verranno anche i tempi del penalty. Soltanto un po’ di pazienza.
L’anno dopo, 1965-66, le presenze scendono a ventitré, ci sono di mezzo infortuni non gravi ma fastidiosi, ma la tempra da lottatore c’è, e Berce si riprende benissimo. Adesso i Bercellino bianconeri sono due, con la felice parentesi di Silvino detto Bercedue, acerbo talento gollereccio capace di schiodare parecchie partite destinate al doppio zero; lo stopper chiude la stagione crescendo, ricostituendo il tandem di ferro con Tino Castano, e insomma Berceroccia è stato pari al nome pure nella sventura di un’annata balorda. Si rifarà, con tanto di interessi, l’anno dopo.
Comincia l’annata di grazia 1966-67, esultano stuoli di tifosi della Juve tornata primattrice o almeno comprimaria, stante l’acquisita nobiltà dell’Inter europea. Bercellino è lo stopper, Castano è il libero, mai accoppiata è maggiormente sinonimo di garanzia, di sicuro affidamento. Mancano i fuoriclasse capaci di risolvere funambolicamente le partite? Pace; ci si arrangia con la difesa imperforabile, goal presi pochi e più spesso nessuno, certo che Berceroccia la fa da padrone su qualsiasi centravanti, è l’annata sì per molti bianconeri di buona volontà, ma per lui è addirittura l’annata monstre.
Il 20 novembre, nel pantano di Napoli, Berce lotta e trascina i compagni verso l’impresa numero uno della stagione, il successo esterno contro il forte Napoli del fortissimo Altafini, e il duello Berce-José è episodio sintomatico della grande stagione dello stopper bianconero.
Il 15 gennaio, con una Juve decimata dagli infortuni che arranca contro il bunker vicentino e non passa, Bercellino emula addirittura John Charles, segnando con memorabile capocciata il goal del rompighiaccio. Si scopre che i goal di Berce sono preziosi almeno come i suoi imperiosi anticipi difensivi: la verifica dello stopper edizione goal si ha nell’arroventato finale di stagione, quando la squadra accusa qualche battuta a vuoto proprio nel momento in cui si intravede la possibilità di aggancio alla vetta.
23 aprile, Comunale che pare tutto un unico fischio impietoso all’indirizzo della squadra che lotta ma non morde contro il Venezia catenacciaro e contropiedista. Le radioline, beffardamente, raccontano dell’Inter che non ce la fa a superare la Lazio proprio mentre i veneziani stanno per portare a compimento l’impresa di espugnare il Comunale.
A otto minuti dalla fine, la svolta. Rigore pro Juve, netto: tira tu, io no, la solita storia, i bianconeri sono senza un rigorista, e già diverse volte hanno pagato caro questo limite, fallendo penalty decisivi. Prova Bercellino: botta centrale ma micidiale, goal. 1-1, ma non è finita. 40’: crossa Favalli dal fondo, palla altissima per tutti, ma no, arriva Bercellino al vertice opposto dell’area, e sbatte dentro. È il goal vittoria che elettrizza l’ambiente e propizia il sorpasso finale. Ma Berce sarà ancora decisivo, e proprio in extremis.
Primo giugno, ultima di campionato, Juve-Lazio 0-0 a metà gara, anche l’Inter fa 0-0 e sarà decisivo l’ultimo spezzone di partita per assegnare lo scudetto. Berce, contuso, passa all’attacco e, dopo una manciata di minuti, la sua capocciata fa saltare l’ultra difesa laziale. Superfluo commentare.
L’annata del tredicesimo scudetto non resta un fatto episodico: Bercellino la fa seguire da un’altra pure ad altissimo livello, anche più ricca di soddisfazioni personali. Il 1967-68 è l’anno della Coppa Campioni e della Nazionale: appuntamenti che lo stopper bianconero onora nel migliore dei modi. La Juve di Coppa, che fa dimenticare certe distrazioni concesse in campionato, rispolvera il miglior Bercellino: la sua vena lo addita come difensore di livello internazionale, il rigore che trasforma in “Zona Cesarini” contro l’Eintracht schiude alla Juve le porte dello spareggio per accedere alle semifinali.
Ed è naturale che anche la Nazionale finisca per accorgersi di lui. Per la verità, Bercellino già aveva giocato in maglia azzurra a Firenze, nel 1964, contro il Galles (4-1), ma era stata una presenza sporadica, da rimpiazzo del titolare Guarneri impegnato con l’Inter in Coppa. Adesso, la musica è diversa: Bercellino contribuisce in misura notevole alla conquista della Coppa Europa per Nazioni, con quattro presenze (Cipro, Svizzera, Bulgaria e URSS), e sarebbe stopper pure nella finalissima se non fosse fermato proprio contro i sovietici, nella semifinale, dall’ennesimo infortunio.
Quella stessa iella che impedisce a Berceroccia di ricoprire per parecchio il ruolo di stopper bianconero: il 1968-69 segna per lui il canto del cigno. Dopo un eccellente inizio, infortuni a catena bloccano la sua stagione, e rendono indispensabile l’avvicendamento. Con 154 presenze in campionato, nove reti e una manciata di gettoni di presenza in campo internazionale, Berceroccia da Gattinara non si dimentica. Squadra da sempre ricca di grandissimi centromediani, la Juve non smentisce la tradizione con Giancarlo Bercellino: un posto di primo piano, tra i grandi specialisti del ruolo, gli spetta di diritto.


NICOLA CALZARETTA, “HURRÀ JUVENTUS” OTTOBRE 2011
Settant’anni. Li ha raggiunti Giancarlo Bercellino da Gattinara. Data di nascita 9 ottobre 1941. Otto le stagioni alla Juve per questo poderoso stopper prodotto del vivaio, che ha attraversato in maglia bianconera tutti gli anni Sessanta. Per l’almanacco Panini è Bercellino I, per distinguerlo dal fratello minore Silvino, centravanti che a Torino ha avuto poca gloria. Per il resto del mondo, invece, è Berceroccia, sintesi perfetta per un difensore ruvido e spigoloso, difficilissimo da scalfire.
A quindici anni, complice una prestazione super con gli Allievi del Borgosesia, entra nelle giovanili bianconere. Il lancio in prima squadra è mediato dalla classica stagione di tirocinio in B, nella vicina Alessandria. Quindi il ritorno, con le ossa fatte, titolare della maglia numero cinque in una Juve che in attacco è rappresentata dalla coppia Charles-Sivori. Poco più di duecento le maglie bianconere indossate, con il corredo di quattordici goal, tra i quali quello decisivo per lo scudetto del 1967 scippato sul traguardo all’Inter. Partiamo da qui con Berceroccia, dal momento più alto della sua carriera juventina. Primo giugno 1967, è un giovedì, ultima giornata di campionato. Novanta minuti per decidere una stagione. «Proprio così. L’Inter aveva un punto più di noi, ma aveva appena perso la finale di Coppa Campioni contro il Celtic. Noi stavamo abbastanza bene, ma dovevamo vincere per forza e sperare in un passo falso dei neroazzurri».
Il bello è che andò proprio così. «Loro persero a Mantova e noi vincemmo contro la Lazio, grazie anche a un mio goal a inizio secondo tempo».
Ma, mi scusi, che ci faceva in attacco? «Premetto che sui corner andavo spesso in avanti. Ma qui la storia è curiosa. Nel primo tempo, dopo uno scontro con Carosi, la caviglia mi si è gonfiata e facevo fatica a correre. Solo che a quell’epoca non c’erano le sostituzioni e allora, per non lasciare la squadra in dieci, di solito chi si faceva male veniva spostato all’ala. Così feci anch’io».
E alla prima occasione ecco il goal dello zoppo. «Era un modo di dire proprio per indicare la rete segnata dall’infortunato rimasto in campo. Feci goal sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Dopo raddoppiò Zigoni. Sul finale la Lazio segnò su rigore, ma la cosa più importante fu la sconfitta dell’Inter».
Ci sedevate davvero nel sorpasso? «Sì. È stato il nostro merito maggiore in quella stagione. Tecnicamente l’Inter era più forte. Ma noi non abbiamo mai mollato, ci abbiamo creduto sempre. Grazie al Mister Heriberto Herrera che ci ha sempre tenuti sulla corda».
Che tipo era Heriberto? «Un allenatore moderno, avanti rispetto alla media. Predicava il “movimiento” ed era molto democratico. Tutti uguali, nessun privilegio. Neanche per Sivori».
Che difatti nel 1965 lascia la Juve per andare al Napoli. «Una perdita immensa. Anche se fuori dal campo aveva una vita tutta sua, la domenica con lui era uno spettacolo. Si partiva sempre dall’1-0 per noi, perché tanto qualcosa avrebbe inventato. Era geniale e perfido, si prendeva gioco dei difensori e dei portieri».
Anche in allenamento? «Quella era la sua indole. Nelle partitelle erano sfide tiratissime».
Dica la verità: qualche stecca gliel’ha rifilata? «Nemmeno per scherzo: per noi era troppo prezioso!»
E di Charles che mi dice? «Tutto il bene possibile. John mi ha insegnato molto da un punto di vista tecnico. E poi era attento, aveva occhio: se ti vedeva teso, ti tranquillizzava, ti consentiva di tirare fuori il meglio. Come accadde nella magica notte contro il Real Madrid».
Ce la può raccontare? «Ritorno dei quarti di finale di Coppa dei Campioni. Si giocava in Spagna e dovevamo vincere. Di là c’erano Puskás, Gento e Di Stéfano, il meglio dell’Europa. Io, invece, ero alle prime esperienze internazionali. Mi tremavano le gambe. Fu Charles che mi aiutò a mantenere la calma».
E come andò a finire? «Vincemmo 1-0, con goal di Sivori. Quella sera giocammo con una divisa tutta nera. Ancora oggi le emozioni di quella serata sono fortissime, superiori anche a quelle provate per lo scudetto. L’unico rammarico è che, nella bella, perdemmo e uscimmo alle soglie della finale in Coppa Campioni».
La stessa cosa che capitò nel 1968. «Proprio così, una maledizione. Tra l’altro nella partita di ritorno contro l’Eintracht di Braunchvveig segnai proprio io il goal della vittoria con un rigore all’ultimo minuto».
Com’è questa storia dello stopper rigorista in una squadra dove c’era gente come Zigoni e Cinesinho? «Riuscivo a mantenere freddezza e tranquillità. Tiravo forte e centrale, mai rasoterra. Avevo un bel destro e molto mi ha insegnato Ugo Locatelli, mio maestro nelle giovanili della Juventus».
A che età è entrato a far parte del vivaio bianconero? «A quindici anni e sono rimasto juventino fino ai ventinove anni, con l’unica parentesi ad Alessandria nel 1960. La Juventus mi ha dato tanto e andare via mi è pesato molto. La Juve uno non vorrebbe lasciarla mai».
Ha qualche rimpianto dei suoi otto anni in bianconero? «Nessuno, davvero. Abbiamo vinto poco, questo sì».
Perché? «Perché Inter, Bologna e Milan erano più forti. A noi è sempre mancato il giocatore che facesse la differenza. Purtroppo qualche acquisto si è rivelato non all’altezza e qualche altro ha sofferto per problemi extra calcio, come Combin».
Chi vi avrebbe fatto comodo? «Dei giocatori allora in attività, uno come Sandro Mazzola, per esempio. In generale, c’è mancato un Platini. Ecco con Michel saremmo stati competitivi al massimo».
Ultima domanda: chi le ha dato il soprannome Berceroccia? «Credo l’ex direttore di “Tuttosport”, Giglio Panza. Non è che mi abbia fatto mai impazzire questo nomignolo. Ma quando sei alla Juve, va bene tutto».

 

 

Buon proseguimento, .salve Stefano !

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
Il 24/4/2020 Alle 08:48, baudolino ha scritto:

...... ...  ... ... ...................  .relax.... ... ... uum ...... : Ormai avete detto già tutto , 

Forse uno dei pochi non ancora ricordati è il mio quasi coetaneo  &  per questo ero anche un suo "fan "    Vinicio Verza

 

 

 

Vinicio VERZA

 
 
 


«Quando gioco con la maglia bianconera vengo rapito dall’esaltazione.

La mia unica preoccupazione è quella di essere utile ai compagni, le soddisfazioni personali vengono dopo quelle legate al collettivo.

Voglio essere all’altezza dei colori che vesto:

consapevole che non è facile, perché la Juve è il massimo.

La Juve ti offre tanto, ma ti chiede, giustamente, di essere degno della sua tradizione e del suo stile. L’influenza della Vecchia Signora non si arresta al terreno di gioco, ma concerne altri aspetti, anche extracalcistici.

Alla Juventus non è assolutamente sufficiente fornire lo stesso tipo di apporto agonistico e comportamentale che potrebbe risultare graditissimo in altri club.

Alla Juventus occorre tendere alla perfezione, perché la Juventus tende alla perfezione».
Nato a Boara Pisani (Padova) il 1° novembre 1957,

comincia a mostrare le sue doti al termine della Scuola Media (Vigliano Biellese) quando, trasferitosi a Borgo San Martino in quel di Casale Monferrato, gioca prima nel San Carlo

 e in seguito nella Junior.
Molti osservatori restano colpiti dalla sua bravura, ed è la Juventus a ingaggiarlo, accogliendolo tra gli Allievi di Viola, i Beretti di Grosso per trovare degno inserimento nella Primavera:

«All’epoca, guadagnavo 25.000 lire al mese, ma dovevo regolarmente restituire 5.000 lire per le multe che la società mi dava, per le marachelle che combinavo con Marangon & Marocchino.

Niente di grave, ovviamente; magari, marinavamo la scuola e facevamo tardi, perché attratti da qualche bella ragazza».
Il tempo passa e giunge il momento di una diversa maturazione, passando attraverso esperienze più complete;

insieme a Paolo Rossi, raggiunge Vicenza per farsi le ossa che, proprio in quell’anno, riprende il suo posto fra le grandi della Serie A.

Rientra a Torino, integrato nell’organico della squadra titolare, nell’estate del 1977.


«Meraviglioso è stato l’esordio al Comunale, ero imbarazzato per quello che mi attendeva, temevo di venir meno alle aspettative dei tifosi della curva Filadelfia.

Dopo l’infortunio di Bologna, temevo di non farcela più a guarire e giocare, avevo esempi di tanti giocatori che avevano dovuto scrivere la parola fine alla carriera e mi disperavo.

Non mi preoccupavo tanto per il posto in prima squadra, quanto per la carriera nella quale volevo dare tanto, tutto me stesso per la mia Juventus».


Giocatore di ottimo talento, in possesso di stile e di ottima tecnica individuale,

sa andare a bersaglio con tiri di rara precisione.

Buonissimo centrocampista, con qualche limite di personalità, il buon Vinicio lascia la firma sullo straordinario scudetto 1980-81,

nella decisiva partita della penultima giornata (a Napoli); subentrato a Marocchino, Verza effettua al 64’ il tiro che, deviato dal napoletano Guidetti, finisce alle spalle di Giaguaro Castellini,

regalando alla Juventus due punti che ne valgono sei.


La Juventus come maestra di vita: «Ho imparato tante cose e tante ne imparerò; quando gioco voglio esprimere sempre nuovi aspetti della mia personalità guardandomi con occhio critico e, devo ammettere, che non sempre tutto è andato liscio come l’olio, ma ho anche avuto la soddisfazione di essermi sentito determinante in alcune azioni da goal.

Se sono stato in grado di far perforare la rete avversaria, ebbene, quella segnatura mi ha dato lo stesso immenso piacere che avrei provato se la palla l’avessi calciata io stesso alle spalle di Castellini o di Terraneo».
Il ruolo ricoperto: «Sono un giocatore eclettico e la prova l’ho data tra le file del Lanerossi ricoprendo quel ruolo che a molti piace indicare con la parola jolly.

A me, personalmente, importa una sola cosa:

giocare, ho desiderio, voglia e necessità di giocare perché intendo dissipare ogni dubbio sul mio rendimento; dalla panchina o dalla tribuna, posso solo dar prova di maturità accettando disciplinatamente gli ordini e le direttive del Mister».
Nella Juventus,

chiuso dai vari Tardelli, Benetti e Furino, si ferma per tre stagioni: totalizza 60 presenze, realizzando 11 goal e contribuendo agli scudetti 1978 e 1981 e alla Coppa Italia 1979.
Nell’estate del 1981 è ceduto al Cesena,

poi si trasferisce al Milan:

<< Andai al Cesena, perché voluto da Gibì Fabbri, che mi faceva giocare con il numero 5, definendomi il nuovo Falçao;

così, mi ritrovavo a dover marcare gente come Tardelli e Bagni. Che fatica !! !! 

A metà campionato, subentrò Lucchi e passai velocemente dalla polvere all’altare. All’ultima giornata di quel torneo incontriamo il Milan, a San Siro;

sono espulso per aver picchiato Novellino e mi becco 4 giornate di squalifica , ... !!!

Ma, ironia della sorte,

l’anno successivo sono acquistato proprio dai rossoneri. Certo, non sono mai stato un bell’esempio per i giovani !! >> .
Dopo un triennio in rossonero approda per la stagione 1985-86 al Verona,

dove lo attende il compito di far dimenticare Fanna, anche lui ex bianconero.
Un ultimo campionato con il Como e poi il ritiro, a soli 31 anni.

<< ... In quel calcio non mi riconoscevo e non mi divertivo più;

non era una questione di stress, con tutti i soldi che danno ai calciatori, è comico addurre a certe giustificazioni.

Ma a Como, dopo una partita proprio con la Juventus, mi ritrovai immeritatamente fuori squadra, nonostante dei trascorsi di buon livello; la cosa mi diede parecchio fastidio, come il prolificare degli avversari che scendevano in campo con il solo scopo di picchiare. Dissi basta una volta per tutte e senza rammarico >> . 


MASSIMO BURZIO, “HURRÀ JUVENTUS” NOVEMBRE 1987
Piede magico, tiro bruciante, invenzioni a gogò.

E ancora: bel dribbling, incedere elegante, ottima struttura fisica, grinta e voglia di lottare.

E anche buona classe, intelligenza e fantasia.

Eppure.
Eppure questa non è la scheda di un brasiliano che ha iniziato a toccare il pallone sulle bianche spiagge di Rio de Janeiro per poi approdare al mitico Maracana.

È la descrizione delle caratteristiche calcistiche di Vinicio Verza che non è nato in Brasile ma in provincia di Padova.
Con il che si dimostra che da noi nascono buoni, anzi ottimi giocatori.

Gente che non avrà il cognome che finisca in “ha” o in “ho” o ha due nomi propri come “family name”.

E come se non bastasse Verza (che fosse di laggiù si sarebbe chiamato Verzinho) è decisamente un giocatore di caratteristiche sudamericane.

Lo era un tempo e lo è anche oggi, anche se la sorte l’ha portato a militare tra le riserve del Verona operaio di Osvaldo Bagnoli.
Nell’estate del 1977 il ventenne Verza si vede recapitare la raccomandata di convocazione della Juve.

Purtroppo per Verza i titolari sono Tardelli, Benetti e Furino. Un tris di campioni inamovibili e insostituibili a cui il bravo Vinicio fa da scudiero, cercando di trovare spazio e occasioni.
Un ruolo, il suo, che nella storia juventina è intermedio. Non uno dei big ma neppure uno dei tanti,

per un centrocampista dalle spiccate attitudini offensive e dalle tante qualità.

Qualità che in una Juve attenta come quella costruita in quegli anni dalla sagacia di Trapattoni,

non ebbero grande spazio,

anche se l’allenatore soleva spesso dire che:

<< ... Vinicio è mezzo brasiliano,  tant’è la sua fantasia e inventiva in campo».
Insomma Verza è un calciatore bravo e divertente.

Ha raccolto molto meno di quanto doveva nella Juve, ma ha avuto la gioia di vincere in maglia bianconera ben due scudetti e una Coppa Italia.
Già, la Juve. Una squadra, un periodo di vita a cui Verza ripensa spesso. Una volta mi disse: «Ti ricordi che Juve, quella Juve?».
Si riferiva alla squadra dei suoi tempi e aveva ragione. Fu una grande Juventus,

fu un team di assoluto valore, anche perché ogni tanto entrava in campo un brasiliano nato in Veneto: Vinicio Verza.

 

 

 

 

 

 

 

 

Come diavolo fa un gol del genere (mi riferisco a quello di Verza) a non essere mai, e sottolineo mai, neppure citato per una classifica dei gol più belli della storia della Juve?

 

Fino a un minuto fa ero completamente all'oscuro della sua esistenza.

 

E' un gol stre-pi-to-so.

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Gran bel Topic, come sempre quelli amarcord di questo utente.

Rush su tutti, giocatore prima e dopo la Juve, nel Liverpool, di livello mondiale.

Poi tanti altri: Zavarov, Notari, Diego, Athirson, Blanchard, O'Neill, Kapo, Almiron, Tiago, Andrade.

E due citazioni speciali per Pacione e Magrin.

 

P.S. Sinceramente non metterei fra i citati Vignola. Giocatore si spesso panchinaro, ma importantissimo per lo scudetto '84 e per la Coppa Coppe dello stesso anno con gol decisivo in finale.

Uno che fa un gol decisivo per una coppa europea non può mai essere considerato meteora.

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
20 ore fa, Winston Wolf ha scritto:

Come diavolo fa un gol del genere (mi riferisco a quello di Verza) a non essere mai, e sottolineo mai, neppure citato per una classifica dei gol più belli della storia della Juve?

 

Fino a un minuto fa ero completamente all'oscuro della sua esistenza.

 

E' un gol stre-pi-to-so.

Perchè è stato fatto da .... Verza .;) ( fosse stato segnato da un Del Piero opp. da un C.Ronaldo , per dire , ne avrebbero parlato per decenni ) 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti
Il 23/4/2020 Alle 10:52, JUVEXITER ha scritto:

Ancelotti lo faceva giocare ala. Insomma, non ci capimmo niente.

Magari. Lo faceva giocare esterno basso ovvero terzino!! Lo vidi giocare, credo fosse una delle ultime partite di campionato, a Roma contro la Lazio e nel suo vero ruolo di attaccante. E fece una doppietta. 
Fu venduto. Non so se fu più minchione Ancelotti o Moggi. Bah...

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

Uno che credo non sia stato citato è Thomas Haessler. 

Da ragazzino stravedevo per lui. 

Grandissimo talento arrivato fresco campione del mondo nell'estate del 90.

Nella Juventus di Maifredi non trovò la collocazione tattica giusta, anche per la difficile coesistenza con Baggio.

Fu ceduto alla Roma, dopo una sola stagione, brutta per tutta la Juve , entrando nell'affare Peruzzi,  senza lasciare rimpianti. 

Peccato perché era un giocatore di caratura internazionale. 

In nazionale infatti vinse tutto e da protagonista. 

 

 

Condividi questo messaggio


Link di questo messaggio
Condividi su altri siti

×

Informazione Importante

Utilizziamo i cookie per migliorare questo sito web. Puoi regolare le tue impostazioni cookie o proseguire per confermare il tuo consenso.